Via Aurelia, incrocio che divide in due la città che si affaccia sul mar Tirreno, una delle tante prese a morsi ogni giorno dall’asfalto – ora caldo, ora gelido – che inizia a Roma e finisce a Ventimiglia. L’incrocio è uno slargo di una trentina di metri. Aspetto che arrivi il verde del semaforo e scorgo, nel marciapiede accanto alla mia auto, un ragazzo che fa movimenti strani. Passi di danza? Allenamenti? Una coreografia particolare? Guardo meglio. Il giovane, probabilmente quindicenne, si impegna compiaciuto in una serie di passi inizialmente lenti, poi veloci, quasi compulsivi e apparentemente incomprensibili. E’ solo accanto alla colonnina semaforica. Osservo meglio. Il virgulto fissa in realtà l’altro lato dell’ incrocio, quello una trentina di metri più in là. Ruoto lo sguardo e vedo in lontananza una figura minuta che, come fosse il riflesso del ragazzo, compie con chirurgico impegno gli stessi gesti. Piede sinistro alto, passo a destra, doppio a sinistra, giro su se stesso. E ancora, movimenti sincronizzati di braccia e mani. I due vanno avanti per alcuni secondi e si sorridono, come se la distanza fosse in un istante colmata. Come se la carreggiata dell’arteria tirrenica fosse un’opinione, come se non esistesse.
Scatta il verde, parto e mi immetto proprio sull’ Aurelia. Mentre guido mi sento per un attimo vicino a tutte le persone che, nei diversi luoghi, vivono quotidianamente questa strada. Penso ai due virgulti e i chilometri diventano un’opinione. Scorro i rettangolini bianchi della mezzeria e sento il profumo del pesto ligure, delle risate romane, annuso la brezza maremmana, tocco con la mente i momenti vissuti con gli amici in Versilia. Sento i profumi e il rumore delle chiacchierate, delle risate, dei momenti passati insieme. La distanza di un metro o di una mascherina è una forzatura a tutto ciò che siamo stati fino a qualche mese fa. Ma le anime sono altra cosa, a cui anche qualsiasi virus dovrà arrendersi. E il virgulto, ideale germoglio, speranza che non secca, lo sa bene.