Si leggono con un sorriso anche incredulo le pagine di diario che Serena Vitale (grande slavista, autrice di saggi e romanzi premiatissimi: Il bottone di Puskin, La casa di ghiaccio, L'imbroglio del turbante) ha pubblicato con il titolo A Mosca, a Mosca! (Mondadori, pp. 240, euro 19), ma il retrogusto è amaro. E diciamo subito che è amaro come una medicina buona, che fa bene. Era il 1967 quando Serena Vitale, laureanda, fece il primo viaggio in Russia (cioè nell'Urss) e fu subito amore per la cultura di quel continente, per la poesia di Andrej Belyj, di Esenin, di Brodskij, e per tutto quel modo di pensare, prima che di scrivere, così diverso dal nostro, quanto diversa è la letteratura russa da ogni altra opera dell'ingegno umano. Molte volte la scrittrice è andata in quell'universo, mossa sempre da un interesse culturale in nome del quale sopportava le file interminabili per accedere alla consultazione nella Biblioteca di Mosca, la villania delle commesse, i cibi improbabili e i sospetti degli zelanti informatori del Kgb. È il racconto di una situazione eccentrica in una società grottesca, impastata di menzogna, di ipocrisia, di corruzione a tutti i livelli. Sembra incredibile che un intero popolo abbia tollerato per decenni le angherie di un sistema manifestamente assurdo le cui procedure ciniche e umilianti stritolavano persone e cose, soprattutto se le persone erano intellettuali o comunque individui che avevano a che fare in qualche modo con la cultura. Le ottusità della censura, i processi farsa in cui qualcuno, per salvarsi almeno temporaneamente, accusava un collega innocente che sarebbe stato spedito per anni nel Gulag, sono raccontati con il rigore del giornalismo alto e con l'esperienza della scrittrice colta. A ogni pagina il lettore si domanda: ma come è stata possibile tanta stupidità, tanta cattiveria, tanta rassegnazione? Il fatto è che la vita ha sempre il sopravvento, e l'istinto di sopravvivenza trova il modo di adattarsi anche nelle situazioni più assurde. Come i fiorellini nel muro screpolato nei quali Tennyson leggeva l'infinito, come i pini mughi abbarbicati alla roccia che crescono contorti sotto i colpi del vento. Davvero l'umanità si abitua a tutto, e non c'è da stupirsi che la popolazione russa abbia trovato sfogo nell'ubriachezza a tutti i livelli, a tutte le ore e a tutte le età. Serena Vitale narra gli espedienti del mercato nero, i vantaggi della condizione di turista occidentale, la convivenza con colleghi notoriamente affiliati ai Servizi segreti i quali, almeno talvolta, sanno chiudere un occhio; le trafile imposte da un'occhiuta burocrazia e anche i gesti di solidarietà che nascono comunque quando ci si trova in mezzo a esseri umani. Tutto questo è passato e, dopo il crollo del comunismo, l'Occidente ha voltato pagina, preferisce dimenticare anche per non ricevere una chiamata di correo. Ma la Russia di oggi, com'è, come si è risvegliata da un incubo di settant'anni? L'ultimo capitolo del libro è il più agghiacciante. La scrittrice, nel 2007, ha voluto visitare i nuovi quartieri vip di Mosca, e l'orrore è ancora più grande di quello sperimentato nel suo primo viaggio di studentessa, quarant'anni prima: a Moscow City domina il lusso ostentato e offensivo, case e automobili acquistate con soldi di dubbia provenienza (anzi, di certa provenienza illecita), rivaleggiano con Chicago e Shangai, le guardie del corpo sono onnipresenti, e questa "enclave plutocratica" è ancor più ripugnante dei caseggiati-ghetto di allora. E, nonostante tutto, la slavista italiana è pur sempre innamorata della Russia, dei suoi boschi e dei suoi fiumi, dei suoi poeti, di quella lingua così astrusa diventata familiare, e questo amore vibra incessante nella pagina, conquista anche il più scettico, scandalizzato lettore.