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«Deriva personalistica in politica» Ci siamo infantilizzati: cambiamo

Andrea Lavazza martedì 14 maggio 2024
caro Avvenire, la deriva personalistica della politica: credo sia anche questa una delle cause della crescente disaffezione per il voto e del disinteresse per la partecipazione civica. Sempre meno, infatti, siamo sollecitati a formarci una nostra idea di società, che poi potremo esprimere con il voto. Sempre più siamo invece invitati a individuare un singolo politico, se non addirittura più banalmente a simpatizzare con lei/lui.
A uno di loro dovremmo affidarci per delegare il compito di decidere per noi. Si riduce l’elettore a un livello infantile. Marina Del Fabbro Trieste Cara professoressa Del Fabbro, lei sa bene che fenomeni plebiscitari e leaderistici non sono mai mancati nella storia, pur all’interno di contesti politici molto diversi. Il potere carismatico, come lo definiva Max Weber, è sempre stato una delle forme in cui si manifesta la dinamica del consenso, accordato direttamente a persone cui si riconoscono
qualità straordinarie. Ovviamente, noi siamo dentro un sistema in cui l’attribuzione dei ruoli di comando è svolta attraverso procedure codificate e democratiche. Ma è pur vero che siamo passati da partiti radicati in culture di massa diffuse e di lunga durata a una situazione di fluidità post-ideologica in cui hanno finito con il prevalere le singole figure capaci di destreggiarsi con abilità dentro un ambiente mediatico in continua evoluzione. La mobilità dell’elettorato è andata aumentando negli ultimi decenni, portando non a
quell’alternanza che si invocava in passato, bensì a una girandola di catalizzatori di interesse e voti, spesso presto sostituiti dall’ultimo apparso sulla ribalta. Risulta certamente vero che molti scelgono di dare una delega in bianco a chi produce gli slogan più efficaci oppure sa costruire una propria immagine seducente o rassicurante secondo i momenti. In questo modo, la competizione si sposta più sulle personalità che sui programmi. Il dibattito sfocia sovente nella rissa, e i contenuti finiscono in secondo piano (anche la scienza mostra come il primo colpo d’occhio al viso di un candidato sconosciuto produce un immediato giudizio inconscio su di esso, che è difficile da sovvertire in seguito sulla base della conoscenza delle sue idee). Dobbiamo però inserire questa trasformazione della politica all’interno di una più generale mutazione culturale, che ha svuotato le “grandi narrazioni” che sorreggevano formazioni radicate sul territorio, ora sostituite da strutture immateriali e messaggi che si rincorrono e contraddicono. Mi lasci dire, cara professoressa Del Fabbro, che anche noi elettori, per tanti versi, ci siamo “infantilizzati” da soli. O meglio, gli strumenti di cui siamo diventati utilizzatori compulsivi ci spingono in questa direzione. La rivoluzione digitale sfrutta il paradigma del gioco, che abbatte confini e gerarchie, può aumentare l’uguaglianza e indebolisce la verità, smussando le tragiche contrapposizioni del Novecento: è in sintesi estrema la tesi dell’ambiziosa ricostruzione fatta da Alessandro Baricco in The Game (2018). Anche se non la si condivide, altri studi, come il recente Filterworld di Kyle Chayka (Roi Edizioni) mostrano l’appiattimento e l’omologazione di tendenze e gusti provocati dai social media. Compito dei cittadini consapevoli dei rischi di questa situazione è contribuire con idee e soluzioni a ricostruire una buona politica, innervata dai principi e dai valori che la dottrina sociale cristiana continua a proporre a tutte le donne e gli uomini di buona volontà. © riproduzione riservata