C'è una frase del poeta T.S. Eliot che ci lascia dentro molte domande. Dice: «A volte, essere dei falliti è di per sé una vocazione». Ci pensiamo poco: qual è il ruolo che nella vocazione di ciascuno viene riservato al fallimento? E avremo la possibilità di sfuggire a questa arida, tumultuosa e necessaria traversata? Uno dei libri più straordinari del canone occidentale è, per consenso generale, "Moby Dick" di Herman Melville. Lo scrittore lo scrisse attorno ai trent'anni e fu un insuccesso tale che si vide costretto a mettere il punto finale alle sue aspettative letterarie. Moby Dick fu dichiarato illeggibile. Aveva un'architettura narrativa stranissima: era tanto un'avventura marinaresca quanto un rapporto scientifico sulle balene e un trattato metafisico traboccante di dettagli ed erudizione. Anche per i lettori inglesi era una foresta impenetrabile, tanto descriveva con un lessico rigoroso, volutamente tecnico, ogni parte dell'imbarcazione e di tutta la vita nautica. Non stupisce che i lettori, esasperati, ne prendessero le distanze. Eppure, in questa immensa cattedrale di parole che è il romanzo Moby Dick, Melville riconfigurava l'esistenza stessa del linguaggio e dava forma a una radicale e luminosa esigenza interiore. Accadde a lui quello che spesso succede a noi: il suo più grande fallimento era il suo capolavoro.