De Martino lo sapeva: il mondo finisce quando la realtà sfugge di mano
Folkore a parte, il problema della fine del mondo resta una cosa seria e molto poco effimera. Basta rileggere le pagine del nostro maggiore antropologo Ernesto De Martino (1908-1965) riproposte come editoriale nell'ultimo numero dello Straniero, per sorprendersi della loro attualità. Anche lui nei primi anni Sessanta venne liquidato con un'alzata di spalle, se non “scomunicato”, dalla sinistra comunista. De Martino parlava, da antropologo, di “apocalissi culturali” e nel 1977 Einaudi pubblicò La fine del mondo, un grosso volume con tutti i materiali della sua ricerca incompiuta.
Il mondo finisce quando l'umana civiltà si disgrega o si “autoannienta” (in un popolo, in una classe sociale, in un solo individuo) perché perde il senso dei valori intersoggettivi: «la vita deve avere un senso ma può anche perderlo per tutti e per sempre e l'uomo, solo l'uomo, porta in terra la responsabilità di questo deve e di questo può». Non esiste, dice De Martino «nessun piano della storia universale operante indipendentemente dalle decisioni reali dell'uomo in società». Qual è lo stato dei nostri rapporti attuali con il mondo in cui viviamo? «La vita è ciò che si tocca», disse un operaio citato da De Martino. È il senso della vita che forse ci sta sfuggendo di mano.