Rubriche

Dalla musica una lezione per la tecnologia futura

Fabrice Hadjadj domenica 23 luglio 2017
Tra tutti gli strumenti, i più significativi sono gli strumenti musicali. Al contrario degli altri strumenti artistici, non sono attrezzi. L'attrezzo scompare durante il suo utilizzo. In quanto strumento, è «essere-tramite-un-altro» – la persona che lo maneggia – in quanto attrezzo è «essere-per-un-altro», l'opera prodotta attraverso di esso. Meglio lo si usa, meno: la penna non si manifesta se non quando l'inchiostro finisce. E, una volta finita l'opera, lo strumento viene riposto nella sua scatola. Il pennello lascia posto al dipinto, lo scalpello alla scultura, perché la materia che hanno formato resta al di fuori di essi. In un'orchestra le cose stanno diversamente. A immagine del Creatore, lo strumento musicale produce la materia nell'istante stesso in cui la lavora. Se cessa la sua azione, la materia sonora sparisce. Inoltre, uno strumento musicale è un attrezzo strano che non scompare interamente mentre lo si usa. All'ascoltatore piace contemplarlo e lo strumentista intrattiene con esso rapporti quasi coniugali: «Formano una vecchia coppia divertente e commovente quanto un uomo e il suo cane – dice Jacques Dewitte – ma non si riesce ad affermare con certezza chi dei due sia il padrone e chi il docile animale». Più esatto è il paragone con una coppia di sposi. Lo strumentista forma con lo strumento quasi una sola carne, generando un organismo sfuggente e sottile. Ma lo strumento resta separabile dallo strumentista, non come qualcosa che egli può gettare, ma come una cosa di cui si prende cura, che rimette delicatamente nella sua custodia. Del resto, è stato per lui quasi un colpo di fulmine, anche se in seguito ha dovuto faticare e sudare per tirare fuori non solo il meglio dello strumento, ma anche, indissolubilmente, il meglio di sé stesso. Le parole lo dicono: non si usa un violino o un pianoforte, lo si suona. Non si tratta di animali da addestrare: è invece un'autodisciplina di se stessi che si cerca nella loro frequentazione. In questa disciplina e in questo gioco (in francese suonare si dice jouer e in inglese to play) il grande piacere è sentire le dita, le braccia, il corpo tutto intero entrare in intelligenza con lo strumento più che con i nostri pensieri. Dopo un certo tempo di pratica paziente, vediamo le dita, le braccia, il corpo mettersi in movimento quasi per conto loro per realizzare il ritmo, la melodia e l'armonia senza riflettere. Se ci si mette a pensare a cosa bisogna fare e si perde il gesto musicale, corde e dita si ingarbugliano. Strumento in greco si dice organon. Occorre dunque che lo strumento sia legato a noi come un nuovo organo polifonico, in una fluidità analoga a quella che fa funzionare le nostre gambe senza che in fondo si sappia come. Con materiali presi dalla natura – il giunco del flauto, il palissandro della chitarra, la zucca della kora – lo strumento musicale esige anche un apprendistato legato a una tradizione. Questa tradizione viene a far suonare e cantare gli elementi naturali e soprattutto l'aria che si respira che è trasfigurata dalla vibrazione dello strumento. Si costituisce in questo modo una “pratica focale”: il musicista e lo strumento costituiscono un punto focale intorno al quale la gente si raduna in una comunità incarnata, accordata dall'ascolto e dalla danza. A che pro tutte queste considerazioni? Per rendersi conto di quanto il tecnologismo sia invece caratterizzato non dalla moltiplicazione, ma dalla scomparsa degli strumenti. L'apparecchio tecnologico provoca consumo ma non fa appello a un'arte. Funziona in una rete virtuale e non costituisce un punto focale fisico che attira con il suo savoir-faire. Per quanto uno sia legato al proprio smartphone, si tratta di una dipendenza, non di un coniugalità. La reciprocità carnale è assente: lo si sfrutta dispoticamente, o si è sfruttati da esso. Probabilmente anche lo smartphone produce la materia digitale che lavora, ma non tanto per l'azione del suo utente quanto sotto alla dominazione di un sistema dove ci sono più strumentalizzati che strumentisti. Del resto la sofisticazione stessa dell'apparecchio sminuisce il miracolo del vedere legno e corde prendere respiro e vita e passare attraverso tutti i sentimenti umani, diventare capaci di elevazione per l'anima. Ci sono qui troppa elettronica e troppa programmazione perché si possa assistere a quella congiunzione sorprendente a, per così dire, quel “corto-circuito” dell'unione meravigliosamente feconda di un materiale elementare e di una persona umana. Ma le protesi? Gli impianti del futuro? Non faranno con noi un solo corpo meglio degli strumenti da musica? Ancora una volta, tali sposalizi sanno troppo di tecnoscienza e di alta finanza perché possano essere più diretti e aperti di un David Oïstrakh col suo violino, o, più vicini a noi di un Vincent Segal col suo violoncello. E per di più essi non cantano neanche così bene. In breve, lo strumento musicale resta il modello per tutti gli strumenti a venire.