Dal ring alla spiaggia, mai con la testa sotto la sabbia
Il secondo fatto per il quale la storia di Williams ci può interessare è legato a un combattimento dal valore abbastanza secondario, valido per il titolo britannico. È la sera del 21 ottobre del 2000 e Danny Williams sfida il suo connazionale Mark Potter. Arrivati al 6° round, Potter sta dominando il combattimento. Ha portato a segno un numero più che doppio di colpi rispetto a quelli di Williams il quale, carica un destro con una violenza inaudita, che, andando completamente a vuoto, gli provoca una lussazione alla spalla. Ci sono delle immagini allucinanti, che si possono trovare in rete, dove si vede questo pugile restare con un braccio inutilizzabile lungo il fianco, in preda a un dolore che si intuisce nel suo sguardo. Tuttavia Williams, che già stava perdendo (e si trova di fatto in una condizione in cui un essere umano normale non farebbe altro che farsi accompagnare al Pronto Soccorso urlando dal dolore) non si ferma. Il suo atteggiamento paralizza anche il suo angolo che si attarda nel gettare la spugna. È inumano pensare che nel corso di un combattimento pugilistico fra pesi massimi, uno dei due debba rinunciare a usare un braccio. È impossibile, per tutti. Ma quella sera Danny Williams finse di non saperlo e si difese, come poteva, usando solo il braccio sinistro. Qualche colpo di interdizione, un tentativo di difesa, come se aspettasse la fine del round per farsi rimettere a posto la spalla dal massaggiatore. Una pazzia. Ma, proprio mentre tutti (l'arbitro, i suoi secondi, il telecronista, gli spettatori, forse persino il suo avversario) non pensano ad altro che a quella pazzia, Williams trova un varco nella difesa di Potter e piazza un uppercut sinistro che lo manda al tappeto.
Ha vinto Williams e adesso può urlare, ma dal dolore. Gli immobilizzano la spalla giusto per la consacrazione a centro ring, mentre il telecronista urla nel microfono: «Non ho mai visto una cosa del genere nella mia vita!». Ci vorranno un'operazione chirurgica e otto mesi di riabilitazione per rimettere a posto quella spalla e tornare a un'onesta carriera.
Diciotto anni dopo, mentre Williams chissà cosa sta facendo, molti siti sportivi hanno rilanciato le immagini del combattimento di un altro peso massimo, Curtis Harper, a New York. Deve fronteggiare il nigeriano Efe Ajagba che, da professionista, ha 5 combattimenti tutti vinti per k.o. di cui quattro al 1° round. Oggettivamente una macchina da guerra. Tutto sembra normale: ingresso, presentazione al pubblico, l'arbitro che ricorda le regole. Tuttavia Ajagba per aggiudicarsi la sua sesta vittoria non dovrà neppure combattere. Harper, infatti, al suono della campana del 1° round passa sotto le corde direttamente dal suo angolo, imbocca il corridoio e se ne va negli spogliatoi, fra i fischi del pubblico e un telecronista che commenta con le stesse parole usate dal suo collega diciotto anni prima: «Non ho mai visto una cosa del genere nella mia vita!».
Il nostro modo di porci rispetto a qualcosa che ci spaventa, che è pronto ad aggredirci, che potenzialmente vuole farci del male è tutto in quell'intervallo fra lo Zenit di Danny Williams e il Nadir di Curtis Harper. Il punto più alto e quello più basso rispetto all'orizzonte.
Si può decidere di cacciare delle "ronde" leghiste, a loro volta a caccia di extracomunitari, dalla sabbia di una spiaggia di Castellaneta Marina, in provincia di Taranto, oppure sotto quella sabbia metterci la testa, girarsi dall'altra parte, far succedere le cose e vedere l'effetto che fa. Dal mio punto di vista il gesto sportivo della settimana lo hanno fatto una cinquantina di normalissimi bagnanti pugliesi. Gente che, magari con una spalla lussata, non ci sta a veder presa a cazzotti la propria intelligenza senza reagire. Resiste e reagire, ecco la lezione di civiltà di questi campioni pugliesi.