Fanno giri immensi e poi ritornano. I Giochi sono come certi amori, non finiscono. Sono cerchi perfetti, chiudono la traiettoria e si completano. Anche 57 anni dopo. Da Tokyo 1964 a Tokyo tra 19 giorni però è passata un'era geologica: quelle Olimpiadi riassunsero il riscatto di un Paese che mostrava la sua capacità di fondere tradizione e futuro. E la forza della tecnologia che le trasmetteva per la prima volta in mondovisione. Queste invece fotografano il pedaggio da pagare alla pandemia. Dall'emblema del boom economico al bavaglio delle mascherine, dai ventilatori piazzati perché le bandiere non smettessero di sventolare (sì, fecero anche questo i giapponesi di allora) alle regole chiuse di oggi, tampone tutti i giorni, entusiasmo rasoterra, tifo vietato e comunque a bassa voce. Non è colpa di Tokyo, ma il palcoscenico che segna le differenze è quello. Fu una bellissima edizione dei Giochi quella del 1964, con gli stadi affollati. Il pubblico, molto caloroso e del tutto incompetente, applaudiva a comando ma almeno applaudiva. E poi c'erano tutti, tranne l'Indonesia, la Corea del Nord e il Sudafrica, a cementare l'illusione di un mondo pacificato dallo sport. Quando un corpulento olandese, Anton Geesink, vinse la medaglia d'oro più importante nel judo – più che uno sport, una religione nazionale – i giapponesi riuscirono persino a reggere alla vergogna e al dispiacere subìto senza nemmeno far registrare il temuto record di suicidi. Oggi sono altri lutti quelli che le Olimpiadi vogliono tenere lontani. Ma, come nella vita, i cerchi vanno sempre richiusi. Almeno per poterne riaprire degli altri. Tokyo, perplessa, li aspetta.