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Da Thomas Dumm un'apologia della solitudine nella democrazia

Alfonso Berardinelli sabato 26 giugno 2010
Credo sempre di più che noi europei e soprattutto noi italiani dovremmo imparare da pensatori, saggisti e perfino accademici americani quanto sia importante, a volte, parlare in prima persona, discutere senza ipocrisie né malintesi pudori delle nostre esperienze personali quando studiamo un problema generale. Se decido di leggere Apologia della solitudine di Thomas Dumm (Bollati Boringhieri) è perché il tema mi interessa personalmente e perché penso che sulla solitudine abbiamo idee confusamente negative: la temiamo come una sciagura, ignorando la sua inevitabilità e la lunga tradizione culturale che ha analizzato i suoi benefici. Leggo nelle prime pagine: «Racconto questi dettagli della mia vita perché immagino che chi abbia preso in mano questo libro si ponga delle domande precise su cosa significhi essere soli (") come dobbiamo diventare vivendo la nostra vita, come dobbiamo convivere con noi stessi e con gli altri?». E qualche pagina prima l'autore era stato ancora più esplicito: «Chiedo al lettore di provare a mettersi in gioco in questo libro,
quanto ho provato a farlo io. Lo invito a scendere in campo e a incontrarmi, se ne ha voglia».
La cosa curiosa è che Thomas Dumm non è un narratore né uno psicologo. È uno studioso di scienze politiche. Ma come capire la vita associata, le sue ragioni e i suoi pericoli senza familiarità con una solitudine introspettiva, con la sincerità di fronte a se stessi? Senza esperienze di amore e cura di sé, quali strumenti avrò per entrare in sintonia con il bene degli altri? Senza capacità di solitudine, chi riuscirebbe a sopportare il piacere e il peso della libertà? Dumm rilegge e commenta King Lear e Moby Dick, Emerson, Thoreau e Hannah Arendt. Le pagine, le frasi da citare sarebbero molte. Scelgo poche righe promettenti: «Riconosciamo il bisogno di adottare la nostra solitudine come misura della nostra identità. La cura del quotidiano è a mio avviso il nucleo della questione, il fine costante della vita democratica».