Da Merckx a Bonucci, il tempo amaro degli arrabbiati
Oggi le manifestazioni di rabbia più immediate le incontriamo in tutte le occasioni in cui apriamo un social network. Rabbia vomitata in poche righe, con tanto di foto e firma dell'autore. Esiste proprio una categoria: gli haters, odiatori professionisti, coloro che serialmente si scagliano contro i protagonisti di un episodio di cronaca, i politici di turno, gli immigrati, i tifosi di un'altra squadra, i propri ex-idoli. Già, perché lo sport non è fuori da questa dinamica, anzi. Ne abbiamo avuto un orrendo esempio nei giorni passati, con l'augurio di morte a Matteo Bonucci, un bambino di tre anni. Le sue colpe? Essere il figlio di Leonardo, ex difensore della Juventus trasferitosi al Milan e aver avuto una grave patologia che, per fortuna, si è felicemente risolta. Può esistere un livello più basso d'imbruttimento e di disumanità?
Di certo basta con l'alibi che schiacciare qualche tasto sulla tastiera di un computer sia un esercizio di faciloneria o una ragazzata. Onestamente, basta. Questa malattia pandemica, la rabbia, che si diffonde attraverso i social, non può più essere liquidata così. Serve chiarezza sul fatto che chi esercita questa forma d'idiozia sappia che ne deve rispondere. Si potrà obiettare che il fenomeno non è nuovo, ma solo una riproposizione (con nuovi strumenti) di un problema antico. L'11 luglio del 1975 uno fra i 120.000 spettatori della tappa del Tour de France che arrivava alla sommità del Puy de Dôme decise che Eddie Merckx non avrebbe trionfato nella Grande Boucle per la sesta volta. Nello Breton, un signore 55enne, capelli grigi e giacca beige da impiegato, a 150 metri dal traguardo sferrò un pugno nel fegato del campione belga che gli stava passando davanti in maglia gialla, pronto allo sprint finale. Le conseguenze furono evidenti nelle tappe successive: Merckx perse la maglia, arrivò secondo in classifica finale, e quello fu l'ultimo atto del regno ciclistico del "Cannibale".
Il 30 aprile del 1993 Günther Parche, 38enne fan della tennista Steffi Graf, decise che sarebbe stato un buon modo per aiutare la sua beniamina quello di accoltellare alla schiena, durante un match, Monica Seles, 19enne che si stava proponendo sulla scena internazionale come astro nascente. Non finì in tragedia per un miracolo, ma la stessa Seles disse: «Quel giorno il mio mondo si sgretolò», e non fu mai più la stessa.
Il signor Cornelius Horan, invece, decise di manifestare la sua rabbia l'ultimo giorno dei Giochi Olimpici di Atene, nel 2004. Irruppe sul percorso della Maratona e strattonò violentemente il brasiliano Vanderlei de Lima, in quel momento in prima posizione. Nello, Günther e Cornelius finirono davanti a un tribunale che ne decretò lo squilibrio mentale. Eddie, Monica e Vanderlei videro la propria vita cambiata, in peggio. Ci auguriamo, di cuore, che succeda la prima di queste due cose, non la seconda. Possa Matteo Bonucci non leggere mai, anzi neppure immaginare quanto un essere umano riesca a essere sordido. Soprattutto possa avere una vita sana, lunga e felice da calciatore o violinista, astronauta o portalettere, non importa. Una vita di tanto migliore di quell'immondizia con cui, suo malgrado, ha dovuto aver a che fare fin da piccino.