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Da Kabul a San Siro Nadim spiazza la storia

Mauro Berruto mercoledì 11 dicembre 2024
Un rasoterra millimetrico dal dischetto del rigore, la palla che si insacca vicina al palo di sinistra: uno a uno. La porta è quella dello stadio di San Siro, il teatro dei sogni, il posto dove chiunque ami il calcio desidera vedere una partita, figuriamoci giocarla, in particolare se è Milan-Inter, il derby. Questo istante di gloria sportiva se l’è guadagnato domenica Nadia Nadim, nata trentasei anni fa a Herat, Afghanistan, da dove fuggì, bambina, insieme a madre e tre sorelle dopo aver visto il padre assassinato dai taleban. Nadia impara il calcio in un campo profughi in Danimarca, paese che la accoglie fino a farla vestire la maglia biancorossa della squadra nazionale, ma a Herat, che sarebbe casa, non può tornare. Perché una donna che gioca a calcio a Herat se è fortunata finisce in prigione. Se non lo è, muore. Sembrerà incredibile, assurdo, inaccettabile, ma è così. Ed è così, di nuovo, dall’agosto del 2021, quando i taleban sono tornati al potere. Per una di quelle imperscrutabili traiettorie della vita, nell’estate di quell’anno mi occupai, con tanti altri, del tentativo di esfiltrazione di alcune calciatrici dell’Herat Football Club. Stefano Liberti, giornalista e autore di un documentario su di loro, riceve la loro chiamata, sono terrorizzate. Grazie a Cospe, onlus di Firenze che in Afghanistan lavora da anni, convinciamo le ragazze a provare la fuga verso l'Italia. Un viaggio drammatico fino a Kabul, 850 km e quindici ore senza notizie, mentre i taleban prendono possesso del Paese, strada per strada. Poi l’arrivo all’aeroporto e ad Abbey Gate, il varco dove le persone inserite nelle liste d’espatrio tentano di farsi riconoscere dai nostri militari del Tuscania. Le calciatrici di Herat si scrivono una “H” su una mano, per un gruppo di cicliste portate fino lì da un’altra onlus italiana, Road to Equality, il segnale è tenere in pugno una scarpa. Giorni e notti, senza soluzione di continuità, di triangolazioni con loro e con i nostri militari, noi in Italia, loro in Afghanistan al di qua di un muro, le ragazze al di là dello stesso muro, tutti davanti a uno schermo e una geolocalizzazione di Whatsapp. Giorno e notte, loro a mollo in una fogna a cielo aperto fra escrementi, fango, lacrime, senza mangiare e senza bere, perché il cibo e l’acqua sono meno importanti di un power bank per tenere acceso almeno un cellulare. In una drammatica riedizione de “i sommersi e salvati” molte entrano, molte no. Il 26 agosto l’attentato kamikaze proprio lì, ad Abbey Gate, contemporaneamente porta del paradiso e dell’inferno, mette drammaticamente la parola fine ai tentativi. Le ragazze passate da quella sliding door oggi sono in Italia. Non segneranno goal a San Siro, non vinceranno una tappa del Giro d’Italia, ma in tre anni hanno imparato l’italiano, lavorano e fanno ancora sport, per il piacere di farlo. Sono felici, per quanto può essere felice chi, a casa sua, non può tornare. “Education, sport, our rights”, l’educazione e lo sport sono nostri diritti, ha scritto sul suo pettorale ai Giochi Olimpici di Parigi la centometrista afghana Kimia Yousofi, più o meno la stessa storia di Nadia, delle ragazze di Herat, delle cicliste. Uno sprint di 100 metri o un goal a San Siro ci ricordano che ciò che per noi è scontato – istruzione e sport come un diritto per ogni donna – in un pezzo di questo pianeta espongono ancora al rischio di morire. Il nostro dovere, invece, è non smettere mai di raccontarlo. A chiunque e dovunque. © riproduzione riservata