Nell'ampia, intelligente e divertente introduzione al suo Elogio del plagio (Aragno, pp. 274, euro 20), Luigi Mascheroni – giornalista colto e docente alla Cattolica – spiega che chiunque scrive, più o meno consapevolmente riscrive cose che ha letto, dato che tutto è già stato scritto: «La rielaborazione delle idee è l'essenza del progresso. L'imitazione è parte essenziale dell'apprendimento. La tradizione è la base di ogni originalità».Certo, le note musicali sono sette, e le combinazioni, per quanto svariatissime, non sono infinite. Sette anche i colori dell'arcobaleno, e non resta che esercitarsi nelle sfumature. Anche le situazioni umane sono ripetitive: strutturalisti come Vladimir Propp hanno insegnato che le funzioni narrative sono 31, non una di più e non una di meno, e del resto ogni romanzo è riducibile allo schema di due che si amano, ma un cattivo si intromette, e dopo qualche vicissitudine avviene il lieto fine (vedi I Promessi sposi) o la tragedia. Però c'è plagio e plagio. Certo, non si può imputare a Joyce di aver plagiato l'Odissea, perché in casi simili si ha a che fare con archetipi che sono patrimonio dell'umanità, ma diverso è il caso di chi mette nei suoi libri brani altrui, secondo la tecnica del copia-e-incolla facilitata dall'informatica.Mascheroni esemplifica nel libro entrambi i tipi di plagio, cioè il plagio come ripresa di temi e personaggi, e il furto con più o meno destrezza. Fedro rielabora le favole di Esopo e La Fontaine rielabora Fedro, ma ciascuno ci mette del suo: questo è plagio che merita l'elogio.Diverso è il caso di Dumas che riscrive un romanzo di Poe, salvo poi far sapere che una decina d'anni prima Poe era stato suo ospite a Parigi ed entrambi avevano letto l'orribile fatto di cronaca che è la fonte di I delitti della rue Morgue (Poe, 1841) e di L'assassinio della rue Saint Roch (Dumas, 1861). Ci sono anche plagi coniugali: Alberto Moravia copiava dalla moglie Elsa Morante, e Zelda dal marito Francis Scott Fitzgerald, o viceversa, chi potrà mai dire?Diversissimo, però, è il caso di Rosa Giannetta Alberoni che nel suo romanzo L'orto del Paradiso (1989) infilò addirittura interi brani di Via col Vento; o quello di Melania Mazzucco che nel suo Vita (peraltro un bel romanzo, Premio Strega 2003) travasò pagine di Guerra e pace. Questi non sono plagi, sono furti belli e buoni, cioè brutti e cattivi.I due autori che escono più malconci dai puntigliosi riscontri di Mascheroni sono il filosofo Umberto Galimberti e l'opinionista Roberto Saviano, il cui bestseller Gomorra scalava le vette delle classifiche di vendita talvolta enumerato tra i romanzi, talaltra tra i saggi. «Umberto Galimberti – scrive Mascheroni –, l'unica macchina fotocopiatrice che abbia mai ottenuto una cattedra universitaria, firma pensante e pesante di Repubblica, ospite assiduo degli studi televisivi e frequentatore abituale di frasi altrui, è stato protagonista di un infinito processo di clonazione filosofica. Da cui, nonostante il (parziale) discredito intellettuale è uscito legalmente pulitissimo», spalleggiato da colleghi come Massimo Cacciari e Gianni Vattimo. Ma la collazione delle copiature resta imbarazzante.Anche Saviano è incorso in polemiche e processi (non tutti conclusi) soprattutto per aver utilizzato materiali e interviste già pubblicati nella stampa partenopea. Il giornalista Simone Di Meo ha ottenuto che, a partire dall'undicesima edizione di Gomorra, il suo nome venisse inserito come fonte «nel corpo del testo (a p. 141)». Tuttavia, lo stesso De Meo ha scritto, in una lunga lettera al Tempo nel settembre 2013, che nonostante la citazione riparatoria, Saviano «ha sfruttato ogni occasione possibile per attaccare i giornali napoletani cui pure aveva attinto a piene mani dipingendoli come house organ della camorra e strumenti di diffusione della cultura malavitosa campana». Certe cose si preferirebbe non saperle, ma quando sono scritte è impossibile ignorarle.