In questo Paese, che ha il fondo schiena per terra, da dove ricominciare un discorso comune? Per questa domanda, sempre più ricorrente e preoccupata, conosco una sola risposta: dalla Scuola, palestra dei fondamentali del sapere, crocevia del futuro, unica realtà sociale pubblica dove avviene l'incontro quotidiano e reale tra adulti e giovani. Ma negletta e tormentata: negletta, perché i professori non hanno un adeguato riconoscimento sociale ed economico, oberati e demotivati da una tale coacervo di gabbie organizzative e burocratiche che li depriva del loro ruolo di delectare, “affascinare”, docere, “insegnare”, movere, “mobilitare le coscienze”; tormentata, perché affetta da una riformite permanente. Parlare di Scuola equivale a parlare del miracolo dei nostri ragazzi, così uguali dal profondo Sud al profondo Nord. Sono loro che fanno l'unità, la bellezza e la speranza di questo Paese diviso da tutto: dai monti, dall'economia, dalla cattiveria; un Paese benedettamente ricco di talenti e maledettamente incurante di essi. Ogni volta che li incontro, rivolgo loro un appello a fare politica: non solo per affermare se stessi, non solo per cambiare questo Paese, ma anche per una sorta di pietas verso di noi, che non siamo riusciti a lasciare loro un mondo migliore.