Asterix il gallico è ebreo, non c'è alcun dubbio. Chi non si accorge che le trecce e l'elmetto, quasi obbligatori nel villaggio, sono i payot (i boccoli ai lati del viso) e la kippah? Panoramix è il grande rabbino: la sua pozione magica è al tempo stesso manna, lezione talmudica e quel Nome di Dio che consente al piccolo Davide di sconfiggere il gigante Golia. Certamente, l'appetito quasi esclusivo di Obelix per i cinghiali, e dunque per la carne di maiale, potrebbe ridurre a mal partito questa esegesi, ma si tratta di un'inversione così evidente da apparire come il negativo di una specie di kasher... Se interpreto a questo modo le avventure di Astérix, non è soltanto perché il loro sceneggiatore è nipote del rabbino polacco Abramo Goscinny (altrimenti dovrei dire che anche Gran Bailam, il piccolo Nicolas e Lucky Luke sono ebrei... però è vero che la mamma dei Dalton sembra proprio una Yiddishe Mame…). Questa interpretazione può essere utile perché, se un francese non vede che la situazione del villaggio di Astérix corrisponde esattamente a quella di uno shtetl, un villaggio ebraico dell'Europa centrale, cade subito in un grave controsenso storico: quello di vedere in Roma la nemica e dunque di disprezzarne l'eredità. Questo diniego della nostra latinità è forse la causa maggiore dell'attuale nullità “culturale”, della perdita del senso profondo della cultura. «I nostri antenati, i Galli...». La fortuna di questa formula comincia con la rivoluzione francese. Diventa emblematica con i manuali scolastici della Terza Repubblica particolarmente con il Petit Lavisse. I Franchi sono soprattutto gli antenati degli aristocratici, Clodoveo, il re che fece della Francia la «figlia maggiore della Chiesa». All'opposto, i Galli sono democratici, egualitari, e Vercingetorige appare come il primo eroe nazionale nel suo resistere a Cesare (identificato con l'invasore prussiano). Si tratta così di garantire «l'unità e l'indivisibilità della Nazione» scavalcando la Chiesa romana, e, attraverso di essa, la rivelazione ebraica e la cultura latina. Questo rifiuto della latinità trova un altro fermento nella filosofia tedesca. A cominciare da Hölderlin, la pretesa è che la lingua germanica permetta un migliore ascolto dei greci: li raggiunge più direttamente, senza passare dal filtro latino – o piuttosto attraverso l'inquinamento latino. Il passaggio delle idee da una lingua antica all'altra è infatti descritto come una catastrofe. La traduzione di logos con ratio, di energeia con actus e soprattutto di philosophia con cultura è per Heidegger un decadimento le cui ripercussioni sulla storia della metafisica si fanno sentire fino ai nostri giorni. La lingua latina, al fondo, sarebbe quella dell'imperium e la sua influenza si manifesterebbe ultimamente nel regno tecnologico dell'efficienza. In questo modo ci si dimentica però di Cicerone che fu probabilmente il più grande ribelle all'impero (fino a una sorta di martirio) e il più importante riferimento pagano di sant'Ambrogio (imitando il De officiis) e di sant'Agostino (convertito alla ricerca della saggezza dalla lettura dell'Hortensius). Eccolo ormai ridotto a compilatore insignificante, a oratore prolisso, buono soltanto per far sudare gli scolari su versioni dal latino assolutamente inutili nell'epoca di Google Translate e del pidgin digitale. Per non parlare poi di Ovidio e delle sue Metamorfosi, giacimento di miti che la pittura, la letteratura e la musica europea non hanno ancora finito di sfruttare. E soprattutto di Virgilio che Theodor Haecker considerava come «il Padre dell'Occidente» e la risorsa intellettuale per resistere al nazismo, e che ora molti vedono soltanto come il cantore di Augusto e dunque il poeta ufficiale a disposizione del Potere. Per molto tempo, tuttavia, fino allo stesso Paul Claudel, grandi maestri del pensiero hanno giudicato l'Iliade e l'Odissea solamente come preparazioni all'Eneide. Cosa difficilmente comprensibile oggi. E, tuttavia, bisogna ammetterlo: Enea è la chiave, il perno tra Ulisse ed Abramo, quello che permette di accogliere una visione cattolica del mondo – unità nella diversità e movimento nel radicamento. Ulisse ritorna a Itaca invece di condividere l'immortalità di Calipso «dai bei ricci»: è figura della nostalgia. Abramo lascia Ur alla cieca, per andare verso il paese che l'Eterno gli indicherà: è figura della speranza. Tra i due, ma anche dopo essi, sta Enea: su consiglio degli Dei egli abbandona per sempre Troia distrutta per fondare una città in Italia. Laddove i greci rivendicano un radicamento immemorabile (particolarmente con Erittonio l'autoctono per eccellenza, nato direttamente dello sperma di Efesto gettato sulla Terra e antenato degli ateniesi che hanno da allora un legame divino con il loro suolo) i Latini si appellano alla tragedia del migrante costretto a trovarsi un'altra terra. Ora, che cosa ai loro occhi fonda nella giustizia il loro insediamento in una contrada straniera? Che cosa legittima il colono? Perché “colono” è veramente la denominazione principe della grandezza latina, parola difficile da ascoltare oggi, tanto il colonialismo moderno l'ha sfigurata. E nondimeno questa parola viene da colere: prendere cura, preservare, abitare, infine coltivare. Ed è da questo verbo che deriva cultura. Nietzsche dice che la patria è più il luogo dove si genera che quello dove si è nati: il figlio si compie solamente là dove diventa padre. È così per i Latini. È nostro soltanto il luogo che coltiviamo, (da qui i Latinos dell'America). Questa affermazione permette di superare l'opposizione sterile tra un nomadismo senza memoria e un radicamento fantasmatico (chi oggi può rivendicare un territorio da sempre?). Non si tratta di essere cittadini del mondo, né francesi o italiani da generazioni, ma, se si sbarca in Italia o in Francia, di coltivare il genio di un luogo, di una lingua, di una storia, di farsi eco di un'ospitalità che viene prima. Il rabbino Heschel, amico di Martin Luther King, sottolineava che gli ebrei non sono costruttori dello spazio, ma del tempo. Questa verità biblica si ritrova in un principio enunciato da papa Francesco nella Evangelii gaudium e anche in Amoris laetitia e Laudato si': «Il tempo è superiore allo spazio». Ora, questo principio i Latini già lo intravedono. Non si tratta di disinteressarsi dello spazio o di disprezzare il radicamento: Orazio era legato profondamente alla sua villa di Tivoli, Cicerone a quella di Tusculum e la più bella poesia agricola è cantata nelle Georgiche di Virgilio. Ma il radicamento – per una creatura che non ha radici ma gambe e un'ancora nel cielo – non sta tanto nel passato quanto nell'avvenire. È un compito. Quello di prendere cura di ciò che ci è stato affidato, nel luogo dove i drammi e i casi della provvidenza ci hanno condotto. Non è il sogno di radici mai trapiantate che può resistere allo sradicamento totale, ma la cura della riva alla quale ci siamo accostati. Solo il paradigma della cultura permette di lottare contro il «paradigma tecno-economico».