La poesia in cui T.S. Eliot insistentemente si domanda «come potrei rischiare?» e «come potrei allora cominciare?» parte da un’affermazione che egli prende – e che noi solitamente prendiamo – come dolorosa. Si tratta di una confessione scoraggiata: «Ho misurato la mia vita con cucchiaini da caffè». Certo: riconoscere che si sta misurando a cucchiaini qualcosa che, per sua propria natura, dovrebbe rimanere al di là di ogni misura ha il sapore di una sconfitta su tutta la linea. È come se la vita perdesse il suo orizzonte ampio, il suo respiro abbondante, il suo mistero irriducibile e, in direzione contraria, si riducesse fastidiosamente a una condizione carente e minimale, passibile di essere spiegata con un’occhiata ovvia, macchinale e monotona. Da questo punto di vista, non c’è modo di aggirare l’evidenza su cui Eliot riflette: l’esistenza è una cosa che ci fa anche male. Soprattutto se, come scrive nella poesia ll canto dell’amore di J. Alfred Prufrock, essa appare come una frase fatta, svotata di speranza oppure come un passaggio pericoloso, che ci sfugge, con i suoi strani zig-zag tra gli spini e il muro. Possono in effetti sopraggiungere stagioni della vita in cui noi la cogliamo così. Ma queste dolenti esperienze di crisi ci fanno desiderare una briciola di luce, un filo che sia in grado di perforare quella barriera di piombo che talvolta ci pare essere il tempo.
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