Cucchi, lo Stato e il dovere assoluto della credibilità
Quasi sei anni fa, presso l’ospedale Pertini di Roma, Stefano Cucchi sarebbe morto per malnutrizione, secondo quanto deciso dai giudici della Terza Corte d’Assise d’Appello di Roma. L’effetto è quello di scagionare i medici dell’ospedale che dovevano curarlo, mentre nel procedimento nei confronti dei carabinieri che lo ebbero in custodia è emersa una perizia che attribuisce il decesso a un improvviso attacco di epilessia. Queste “verità giudiziarie”, tuttavia, appaiono fragili e inconsistenti come una sentenza scritta sull’acqua.
Non ha senso per un non-esperto entrare nel merito dell'approfondita perizia medica su cui si fonda la sentenza né sulla nuova consulenza. Ha molto più senso, invece, rilevare la drammatica distanza tra questa tesi e il comune buon senso, che si basa sugli elementi oggettivi che ognuno di noi è in grado di giudicare. Come le foto del viso tumefatto e del corpo lacerato del ragazzo: immagini strazianti che indicano, evidentemente, pestaggi ripetuti e forme di abuso dell'autorità. Nella vicenda giudiziaria di Stefano Cucchi lo Stato sembra finora aver fatto costantemente quadrato per proteggere i suoi uomini, più che aver cercato una (scomodissima) verità. Ma non possiamo permettercelo. Perché la credibilità delle azioni e delle decisioni - che per ogni cittadino è soltanto una scelta personale - per lo Stato è un dovere assoluto.