Il trasferimento dell'idea di creazione dalla teologia all'estetica è all'origine di molti equivoci moderni. Agli artisti (e non solo a loro) possiamo anche riconoscere "qualcosa di divino": ma certo nessun essere umano crea un intero mondo, neppure immaginario, dal nulla. L'idea romantica di genio creatore, che portò al limite estremo, travisandola, la cultura umanistica rinascimentale, ebbe come sostegno filosofico alcuni aspetti dell'idealismo tedesco, in cui l'Io somiglia un po' troppo a Dio. Da allora si è cominciato a concepire l'attività artistica come un assoluto. Dagli Inni alla notte di Novalis e dal Kubla Khan di Coleridge, archetipi della lirica romantica, si arriva così alle avanguardie novecentesche passando per Rimbaud e Mallarmé. Perfino un filosofo equilibrato come Benedetto Croce fu piuttosto estremista in estetica e teorizzò la poesia come creatrice del linguaggio. L'idealismo estetico ha prodotto una specie di teologia dell'arte e dell'artista creatore, aprendo la strada all'anarchismo delle avanguardie, il cui linguaggio, in tutte le arti, ha voluto essere, per principio, tanto creativo da sbarrare la strada alla comunicazione. Naturalmente questa estetica della creatività non ha tenuto conto del romanzo, il più empirico e realistico dei generi letterari.
Quest' idea di creatività senza limiti è diventata da tempo un feticcio. Il fatto è che non si dà arte senza tecnica, non c'è invenzione senza regole, non c'è innovazione senza coscienza storica e riuso del passato. Fare arte resta una delle imprese più difficili e rischiose. Non so che cosa succede nelle innumerevoli scuole di scrittura creativa. La cosa migliore sarebbe impegnarsi in un'attività oggi non più ovvia: insegnare a leggere. La letteratura nasce (è sempre nata) anche come imitazione, variazione, ripresa di opere già scritte. I cultori della materia possono leggere in proposito un testo filosofico come Creatività di Emilio Garroni, appena uscito da Quolibet.