Così il «provinciale» Giorgio Bocca elogiò la Chiesa nel tempo della crisi
Le qualità principali di Bocca erano la naturalezza, la concretezza, la curiosità del «provinciale» che sceglie il giornalismo con la passione di chi in fondo teme il mondo e si informa su come funziona per difendersi dai suoi pericoli e dalle sue trappole. Nato nel 1920, non poteva che essere socialista, aveva partecipato alla Resistenza, era un uomo pratico e diffidava delle ideologie.
Negli anni Sessanta, il giovane Piergiorgio Bellocchio sulla sua rivista «Quaderni piacentini» lo definì il Montanelli della sinistra, giudicando semplicistica e sommaria la sua Storia dell'Italia partigiana. Bocca non si offese. Oggi quella definizione ha un suono diverso e molto più positivo. Resta il fatto che la semplicità di Bocca fa presto a scivolare nella semplificazione. Del resto il mestiere di giornalista lo esige: semplificare le inesauribili complessità che ammorbano la società italiana e ne fanno un'eterna commedia (o tragedia) degli equivoci, in cui l'arte più apprezzata è alzare su tutto cortine fumogene e non chiamare le cose con il loro nome, è utile. Perfino l'alta cultura in Italia viene usata come maschera. Per questo leggere o rileggere gli articoli di Bocca fa bene, disintossica. Riporto un paio di frasi del '96 come un saluto rivolto al giornale in cui compare questa rubrica: «in tutte le cittadine dell'hinterland milanese, scomparsi i politici di tutte le bandiere, unico punto di riferimento è la parrocchia. C'è ancora nella Chiesa una generosità disinteressata che nei partiti è scomparsa».