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Così Gulliver combatte il disagio

Massimo Folador sabato 26 novembre 2016
Gulliver è una cooperativa sociale nata 30 anni fa a Varese per rispondere al dramma della tossicodipendenza e oggi è una realtà importante del territorio, dove lavorano circa 150 persone e che, accanto alla cura delle dipendenze, si occupa di numerosi altri servizi a supporto del disagio psichico/ sociale e del reinserimento lavorativo. In occasione dei 30 anni dalla sua fondazione ho avuto l'opportunità di partecipare ad un convegno dal titolo inequivocabile: "La solidarietà si dà assetto imprenditoriale" e di parlarne con don Michele Barban, presidente e fondatore di Gulliver. Una sfida che don Michele ha affrontato in prima persona con l'energia e la lungimiranza che tutti gli riconoscono e che ha contribuito a rendere Gulliver una realtà unica nel panorama della cooperazione.
«Ogni realtà produttiva, qualunque essa sia, nasce sempre come risposta ad un bisogno ed è la qualità di questa risposta che ne assicura il futuro. Un'azienda, così come una cooperativa sociale, deve sempre porsi questo obiettivo e far sì che la capacità di generare valore all'interno e all'esterno del "sistema" si consolidi nel tempo. Oggi la differenza tra un'impresa profit e una no profit si è molto assottigliata. A noi spetta dare risposte ad un disagio in aumento per vastità e complessità, dovendoci confrontare per di più con una situazione economica delicata. Alle aziende serve affrontare un mercato sempre più competitivo ed esigente, con grande professionalità, in un'ottica di breve ma anche di lungo termine».
La domanda è d'obbligo: cosa ha significato per voi percorrere questa strada e avvicinare due mondi così apparentemente distanti? «È una dicotomia che credo oggi non abbia più senso – risponde don Michele –. Quello che conta è far si che ogni persona fornisca il suo contributo perché il sistema nel suo complesso possa generare valore. Per noi questo ha significato lavorare sugli elementi tipici di ogni impresa profit: la struttura di governance ad esempio, la pianificazione delle attività, lo sviluppo di un network e, soprattutto, la crescita delle competenze di ogni collaboratore e dell'organizzazione. Oggi per lavorare all'interno del sistema sanitario regionale dobbiamo migliorare di continuo i nostri standard di servizio proprio come ogni altra azienda di questo settore. A noi però questo non basta perché vogliamo e dobbiamo rimanere ancorati ai nostri valori: la cooperazione, il bene comune, la carità autentica verso le persone. Per fare bene il nostro lavoro dobbiamo "fare del bene" e questo è frutto di una scelta intima e personale». In fondo anche un'azienda se vuole sviluppare un risultato sostenibile deve oggi guardare alla sua attività in modo completamente diverso, aggiungo io. «Sicuramente – riprende don Michele – e quanto prima le aziende comprenderanno quanta energia e passione derivano da un lavoro che nasce dentro questi valori, tanto prima riusciranno a darsi prospettive più ampie e incisive. Così come è importante che il terzo settore comprenda quanto è utile e produttivo introdurre elementi di gestione aziendale pur mantenendo sempre lo sguardo in alto e il cuore vicino alle persone».
Penso al lavoro di don Michele e intravvedo questa apparente dicotomia: il fare deciso e lungimirante di un imprenditore ma anche l'attenzione e la cura di un sacerdote con tanti anni di "servizio" alle spalle. Chissà, forse sta proprio nella ricerca di questo equilibrio una delle sfide dei prossimi anni.