Cosa conta ancora del mio Natale
Ripenso spesso a quando ero bambino, a mio padre che allestiva il presepe, a mia madre che faceva i suoi inarrivabili ravioli di magro, ricotta e bieta con un po' di zafferano. Io avevo l'incarico di contarli, a mano a mano che li preparava, e baravo sempre perché me li mangiavo crudi per quanto erano buoni. Ricordo una volta, a ventuno anni, mia madre era in ospedale per uno dei suoi tanti ricoveri ("eh, mi sa che questa volta ne uscirò con i piedi in avanti", diceva ogni volta, e io le rispondevo "tranquilla, mamma, vedrai che alla fine ti dovremo abbattere". Per la cronaca, mia madre è morta nel suo letto, nel sonno, a 96 anni), io e mia sorella Fernanda – la maggiore, Francesca, era già sposata – decidemmo che la tradizione andava rispettata e ci cimentammo nella preparazione dei ravioli. Fu un disastro. Totale.
Poi mi sono sposato, e abitudini e piccoli riti sono cambiati, mentre a uno a uno i genitori di mia moglie e i miei se ne andavano. Il primo anno di matrimonio costruiamo insieme, mia moglie e io, una capanna usando listelli di legno ricavati da una cassetta, scuriti col coppale, paglia vera in fascine legate con filo da cucito, rametti per fare una staccionata e una scala, con tanto di legature quadre con lo stesso filo di cui sopra, il fuocherello, l'abbeveratoio, le lucine. Ecco, quella capannina è sempre la stessa dal 1986, anche se negli anni abbiamo poi aggiunto qualcosa comprato a San Gregorio Armeno, a Napoli: due cassette di frutta, una treccia d'aglio, dei pomodori, una fontanella... Così, da allora, questo è stato Natale in casa nostra. Sempre insieme. E i pranzi e le cene, alla fine, non contano niente. Buon Natale a tutti.
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