Didi era un clandestino. Aveva studiato lingue nel suo Paese e cercava un lavoro. Essendo senza permesso si prestava per qualsiasi situazione, accettava qualsiasi offerta: scaricare la frutta ai mercati, condividere il lavoro degli ambulanti, coltivare la terra e da ultimo fare il badante degli anziani. Ma tutto questo in un clima di paura, di qualche sera di fame pur di mandare il poco che guadagnava alla famiglia, a quei tanti fratelli che nel suo Paese vivevano miseramente. Marcello Candia, l'uomo che aveva venduto le sue fabbriche in Italia per andare incontro ai poveri del Brasile, un giorno mi disse: «Vedi, non basta dare denaro a questa povertà così antica, così accettata come fosse un inevitabile destino. Bisogna a questo punto condividere. Si capisce solo quando si partecipa alla stessa sofferenza, quando si affrontano assieme le medesime difficoltà». Marcello Candia, un uomo eccezionale, di una umanità senza confini, che ha lasciato dietro di sé un profumo di bontà e un modo semplice di promuovere la santità senza rumore, senza il bisogno di abbassare la propria dignità e il modo di conoscere e di vivere di un paese lontano a un livello più basso, ma nel condividere passioni e speranze alzando quello di chi gli era vicino. Vedi, mi disse un giorno, non basta mandare denaro, bisogna condividere. Egli aveva venduto le sue imprese ed era andato in Brasile per vivere accanto ai suoi poveri. Lui che nella sua Milano indossava sempre un gessato blu, si era accontentato di una camicetta di cotone e dei sandali per mangiare assieme ai diseredati delle foreste. Ma qui come si poteva condividere l'infelicità di un giovane che non voleva disperare del proprio futuro, ma che non trovava la strada per farlo? Per lui, come per tanti altri era come essere in prigione senza via di uscita. Qualcuno un giorno lo aiutò e gli fece avere l'agognato permesso di soggiorno. Ora la vita è di nuovo sua. Condividere, anche quando non si può raggiungere la povertà lontana vuol dire fare propria la necessità dell'altro e per questo impegnarsi con tenacia e determinazione nel risolvere il caso. Non è necessario essere cristiani per questo, basta aprire gli occhi su chi ci vive attorno e saper ascoltare. In mezzo a tante notizie cattive che ci perseguitano ogni mattino dalle pagine del nostro giornale, queste piccole cose sono come fiori accesi nel buio. È vero che i disperati che arrivano dal mare sono in numero eccessivo perché la nostra società abbia la possibilità di assorbirli, dar loro un lavoro dignitoso e sufficiente, quando abbiamo anche noi una povertà che in silenzio cresce in questo tempo di incertezze. È vero che non si può continuare ad accettare chiunque voglia scendere sulle nostre spiagge e una soluzione equa è difficile da trovare. Qualcosa che non assomigli all'egoismo, ma alla giustizia e all'equità. Forse non c'è che la soluzione di offrire la possibilità di vita nel loro paese promuovendo imprese, lavoro sul posto, diminuendo certe spese inutili e superflue da noi per condividere le loro difficoltà con iniziative di lavoro e di promozione sociale, di istruzione. Non sarebbe difficile ricominciare da qui se davvero sapessimo comprendere che i neri d'Africa hanno una loro civiltà da non tradire e che ha solo bisogno di essere risvegliata. Questa mi pare la sola strada da percorrere.