Confinamenti e tre giocattoli nel Sahel
Chi la fa l'aspetti, verrebbe voglia di dire, con la saggezza di un tempo. Abbiamo giocato a confinare popoli, migranti, desideri di trasformazione, aneliti di giustizia e fragili tentativi di riappropriazione di dignità. Abbiamo moltiplicato muri, cancelli, sistemi di controllo, radar, tracciamenti di esseri umani "clandestini", reclusioni dietro reticolati di cartone, inventato biometrie e armi ogni volta più numeriche. Abbiamo, per decenni, scavato fosse, tracciato trincée, creato abissi, progettato voragini, disegnato mari e deserti come recinzioni per fintamente proteggerci e adesso tocca a noi. Confinati fisicamente, mentalmente, socialmente, economicamente e soprattutto umanamente da scelte politiche al soldo di interessi ideologici e monetari. Doveva capitarci perché potessimo provare ciò che nel frattempo avevamo dimenticato. Che, in questa vita e forse pure nell'altra, siamo tutti migranti e che la vita stessa è migrazione e che il mondo e la terra sono di tutti e in particolare dei poveri. Fa sorridere che qui, in mancanza di meglio, come riporta un giornale locale, ad essere confinate sono... le galline. Il giornale in questione cita il Punto focale dell'Organizzazione Mondiale della Salute Animale che rileva l'esistenza di due focolai di influenza aviaria a Niamey. I gesti barriera sono stati subito introdotti, riporta il giornale, assieme ad una stretta quarantena dei malcapitati animali e l'isolamento degli stessi da ogni contatto esterno. Il settimanale conclude con una nota di solidarietà nei confronti del pollame in questione e desidera ricordare agli animali che dovrebbero sentirsi privilegiati perché, nel 2006, erano state freddamente abbattuti almeno 17mila volatili. Johnson, senza chiedere a nessuno, ha delicatamente deposto sulla terra della tomba di Aliya tre giochetti come regalo. Una trombetta multicolore per suonare, un pesciolino rosso per un mare che ancora non c'è e un uccellino giallo polvere di vento, per volare lontano.
Niamey, marzo 2021