Caro Avvenire, papa Francesco ha scritto ai partecipanti del Congresso dell’Association de parents d'élèves de l'enseignement libre: «Penso in particolare alla sfida posta dall’intelligenza artificiale e alla maniera in cui cambia profondamente, al di là dei metodi di apprendimento, il modo di pensare in modo autonomo. Per affrontare questa sfida, che non riguarda soltanto l’etica ma anche la formazione dell’intelligenza e del giudizio dei vostri figli, dell’intera gioventù, vi assicuro che la Chiesa è al vostro fianco». Il cambiamento in atto segna il passaggio dall’insegnamento basato sulle regole, all’insegnamento per problemi.
Enrico Fortunato Maranzana
Caro Maranzana, a un colloquio cui ho partecipato recentemente, l’ex rettore del Politecnico di Milano Giovanni Azzone, ora presidente di Fondazione Cariplo, sottolineava come in meno di due anni si è passati dal raccomandare agli studenti di non usare i programmi di intelligenza artificiale generativa per comporre i loro testi al tentativo di usare altri programmi per scoprire chi si faceva aiutare dall’IA senza dichiararlo fino all’invito esplicito, in certi contesti, a servirsi di ChatGPT o Gemini per poi valutare la loro efficacia e trovare eventuali errori in ciò che producono. Mi sembra un’efficace sintesi di quello che sta accadendo rapidissimamente sotto i nostri occhi.
Lei, caro Maranza, scomoda addirittura un’analogia con la transizione tra Antico e Nuovo Testamento. Limitiamoci alla rivoluzione tecnologica, per ora. Ed è già sufficiente. La lettera del Papa, come già in modo più completo il suo messaggio per la Giornata mondiale della pace, lo scorso 1 gennaio, indica la sfida epocale che sembra aprirsi e anche la consapevolezza della Chiesa rispetto a essa. Non è un caso che Francesco parteciperà, primo pontefice, alla riunione del G7 a presidenza italiana proprio per discutere di regolamentazione dell’intelligenza artificiale.
In ambito scolastico, è facile vedere i due problemi evidenziati. Da una parte, se ricorriamo troppo spesso ai servigi istantanei e gratuiti degli algoritmi per scrivere, trovare idee, svolgere attività complesse, rischiamo quello che gli inglesi chiamano con termine di invidiabile sintesi “deskilling”, ovvero la perdita di abilità e competenze. Quando deleghiamo tutto alla macchina, non impariamo e, anzi, facciamo atrofizzare le nostre capacità.
Sull’altro versante, potremmo avere una certa omologazione del pensiero. Qui torna utile la nuova strategia suggerita al Politecnico di Milano. Difficilmente, tutti faremo la stessa domanda a ChatGPT o Claude (un altro ottimo software), quindi la risposta “automatica” risulterà diversa. Dobbiamo imparare a esercitare curiosità e fantasia nell’uso dell’IA generativa in modo da sfuggire alla mera ripetizione.
Concludo aggiungendo una nota positiva e una negativa. La prima riguarda tutto il buono che può venire dai nostri nuovi, instancabili assistenti: usiamoli per fare una virtuale interrogazione del meglio che i nostri simili hanno pensato finora. Ne trarremo spunti per andare oltre, nani sulle spalle dei giganti, che grazie a questa posizione possono guardare più lontano. La riflessione meno consolante è che oggi possiamo ipotizzare antidoti a queste insidie dell’intelligenza artificiale. Ma la velocità del suo sviluppo, l’opacità del suo funzionamento e la limitatezza delle nostre risorse cognitive p robabilmente ci rendono ciechi ad altri pericoli che potremmo scoprire quanto sarà più difficile porvi rimedio.
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