In quella foto hai forse vent’anni. Seduta a una scrivania appoggi il mento su una mano e stringi una sigaretta fra le dita. Non bella, hai due occhi neri calamitanti per l’intensità, per la traboccante voglia di vivere. Tanti capelli nerissimi, mossi, immagino incontrollabili al pettine. E un’espressione pensosa e interlocutoria, come ti stessi dicendo: “Ora sono adulta. E adesso?”.
E adesso, Etty, ebrea nata nel 1914 ad Amsterdam, è il 1942, l’ora più buia. Studentessa agnostica e libera, indecisa fra diversi fidanzati, innamorata di Rilke e Dostoevskij, anche tu fra pochi mesi partirai.
Con l’invasione nazista la Storia ti precipita addosso. Ma tu entri in una sbalorditiva metamorfosi. Dal campo olandese di Westerbork, dove assisti i deportati, ascolti le grida dei bambini e lo sbattere cupo delle portiere dei treni che partono, scrivi: “Vorrei essere un tetto a Dio”.
Un tetto a Dio nel fango, tra baracche sovraffollate, dove di notte le donne piangono e i vecchi vagano, incespicanti, smarriti. Eppure, proprio lì una ragazza di 26 anni voleva lasciare un angolo al Dio, davanti al quale una notte, in un gesto che non apparteneva alla sua stirpe, si era inginocchiata – “Come spinta a terra”.
Etty Hillesum, morta ad Auschwitz a 27 anni. Lanciò dal treno una cartolina, miracolosamente ritrovata sui binari: “Siamo partiti cantando”. Sei una sorella più grande, per sempre.
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