Come si dialoga, ora che sempre più tutto è affidato ai marchingegni distanzianti della comunicazione virtuale, in un sistema globale di scambio umano che persa ogni umanità, si autoalimenta, sostituendo ai contenuti del comunicare una ininterrotta riflessione sui mezzi di comunicazione? Come è possibile parlarsi ancora, in uno scenario tanto alienante – e spingendo la domanda più oltre, come è possibile parlare d’amore? Lo scrittore Davide Orecchio affida a un epistolario un dialogo sentimentale imbastito di virtualità, ottenendo effetti paradossali, presumibilmente voluti dall’autore, ma lo stesso sorprendenti. Perché la voce maschile del suo ultimo romanzo (Lettere a una fanciulla che non risponde, Bompiani, pagine 210, euro 18,00) nel mentre, febbrile, compone lunghe lettere per una donna molto amata e perduta (che lo ha piantato), lo fa non da uomo, bensì da uomo contraffatto, uomo virtuale, la cui intelligenza è artificiale, IA secondo l’acronimo più inquietante che mai sia stato lanciato nel mondo. Il protagonista è dunque una macchina, ma una macchina innamorata, romantica, implorante, nostalgica – umanissima. Dal cuore ben più sincero di tutto quanto lo circonda, ben più umano della fanciulla che - fatti salvi lacerti di frasi riportate in brevi note a pie’ di pagina - altrimenti non gli risponde mai. Invero, più che dialogo quello imbastito da Orecchio è un monologo d’amore, una sorta di canzoniere le cui missive, vergate dall’uomo “cibernetico” sono peraltro scritte a mano, con penna e inchiostro, mentre lei, l’adorata interlocutrice, implacabilmente tace. E più lei tace, e si sottrae, più l’intelligenza artificiale che presiede al funzionamento dell’uomo innamorato si attiva, lavora a pieno ritmo, inventa, crea, ricorda, assembla storie dal ritmo vertiginoso con suggestioni nostalgiche e filosofiche: tanto da arrivare a creare pagine e nuclei tematici pulsanti al pari, se non più, dei sentimenti. Come negli altri suoi libri, Davide Orecchio è molto efficace nel costruire un’architettura narrativa complessa e criptica, attraversata da un filo rosso che in questo caso si dipana tutto in direzione dei sentimenti. Lungi dall’essere un’apologia dell’artificio virtuale, al contrario il suo è un lungo racconto incentrato su quanto la macchina, ribellandosi al suo essere macchina, scalpiti e si dimeni pur di riuscire a dar voce a moti del cuore, a balbettare le parole di un nuovo lessico d’amore. Quasi fosse uno Sherazade al maschile, nelle lettere l’uomo narra alla ragazza amata molte storie, per intrattenerla e per tornare a sedurla, ma anche per lui stesso dare conto a sé stesso del mondo, di ciò che del mondo ancora è sensibile. Un po’ come il Mostro di Frankenstein, anche qui, nel protagonista non-umano ma acceso e vibrante creato da Orecchio, la necessità emotiva di dimostrarsi come che sia vivo, vivente, dà luogo a qualcosa di profondo e risonante e acuto,
in un mondo dove tutto naufraga verso l’opaca sterilità della forma – che significa, nella lunga durata, orientato verso l’invisibilità e inconsistenza di quanto è generato da artificio.
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