Vite digitali. Combattere la solitudine con l’IA: utopia o realtà?
Gli effetti nefasti della solitudine si studiano da decenni. Ben prima dell’avvento dei social, degli smartphone e della pandemia. Le tecnologie digitali e il Covid hanno però peggiorato la situazione. Al punto che la solitudine ormai colpisce ovunque e tutti: bambini e ragazzi, adulti e anziani. Secondo l’Office for National Statistics inglese, circa il 7% di persone nel Regno Unito soffre di solitudine cronica. Nell’Unione europea, secondo un’indagine diffusa un anno fa, colpisce il 13% dei residenti. Negli stessi giorni, il Surgeon General of the United States ha ammesso che «la solitudine negli Stati Uniti è ormai una vera propria epidemia che pone rischi mortali per la salute, quanto fumare fino a 15 sigarette al giorno, costando alla sanità miliardi di dollari l’anno».
Quanto facciano da sempre gli esseri umani per combattere la solitudine, propria e altrui, lo sappiamo bene tutti. Ci sono persone, associazioni e iniziative che meritano tutto il nostro grazie. Ma qui parliamo di digitale. E quindi, dobbiamo chiederci: può la tecnologia, che spesso l’ha alimentata, aiutarci a combattere l’epidemia di solitudine? E ancora: cosa può fare in merito l’intelligenza artificiale? Potrà sembrarci una follia ma già oggi nel mondo molte persone usano sistemi basati sull’IA per conversare con fidanzate virtuali, persone care defunte o avere un supporto psicologico. Se chiedete a ChatGpt cosa può fare per combattere la solitudine, vi risponderà che può chiacchierare con voi su qualsiasi argomento, suggerirvi nuove idee e attività da esplorare, fornire consigli su come fare nuove amicizie, ma soprattutto «ascoltarti se hai bisogno di sfogarti o anche solo di parlare».
Si tratta però di un aiuto “a posteriori”.
Tony Prescott, professore di robotica cognitiva all’Università di Sheffield, ha scritto un libro, The Psychology of Artificial Intelligence (cioè, La psicologia dell’intelligenza artificiale), in cui sostiene che «l’IA ha un ruolo importante da svolgere non solo nel combattere ma addirittura nel prevenire la solitudine».
Ma come può l’IA aiutare addirittura a prevenire la solitudine umana? Prescott è convinto che dobbiamo imparare a «riconoscere il potenziale comfort che può offrirci l’intelligenza artificiale». Secondo lui, «l’IA può, per esempio, aiutarci a fare pratica di conversazione e interazione, e in questo modo portare le persone sole a ritrovare la voglia di stare e comunicare con gli altri. Non solo,
può aiutarci anche ad avere più autostima». Una tesi bocciata su tutta la linea da Sherry Turkle, professoressa di scienze sociali al MIT, il prestigioso Massachusetts Institute of Technology. Intervistata dal Guardian, ha spiegato che «la creazione di rapporti con le macchine potrebbe portare le persone ad avere relazioni umane meno sicure e appaganti». Sulla stessa linea c’è l’esperta di gerontologia Christina Victor. La quale non solo dubita che l’AI possa combattere o tanto meno prevenire la solitudine ma ci ricorda «che le nostre relazioni sociali si basano sulla reciprocità e ci danno l’opportunità di contribuire oltre che di ricevere». Abbiamo cioè bisogno non solo di qualcuno che ci ascolti ma anche che ci faccia sentire utili. Il tema è importante e lo sarà sempre di più. Perché il numero di persone che soffre di solitudine sembra destinato ad aumentare
mentre il tempo per aiutare gli altri soprattutto per chi lavora è sempre meno. Gli anziani, poi, saranno sempre di più. Viene quindi naturale chiederci: quanto riusciamo e riusciremo a farci carico della solitudine altrui e quanto avremo comunque bisogno delle macchine, magari (come è stato già fatto) sotto forma di robot che, per esempio, ascoltino gli anziani e i malati, leggano loro libri, giornali e li aiutino a prendere le medicine all’orario prestabilito?
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