Lei porta ancora i capelli lunghi alla schiena. Senza trucco, sembra appena uscita dal liceo. E molti per strada la guardano meravigliati, con quella evidente pancia da nono mese: così giovane, già mamma? È strano, in questi giorni sotto Natale, girare per Milano con una donna a pochi giorni dal parto. Perché è tanto insolita una mamma così giovane (anche se in realtà lei ha 26 anni) che nei negozi del centro le commesse paiono quasi imbarazzate. La guardano, sorridono ma non dicono nulla. Sarà stato senz’altro un incidente, sembrano dirsi, nella loro snellezza da Barbie, non è possibile volere un bambino a questa età.
Mia figlia non fa nulla per nascondersi, anzi, slaccia il cappotto e cammina stanca del peso, ma fiera. Un po’ seccata: «Mi prendono per una ragazza madre», dice, ed esibisce la fede d’oro sull’anulare sinistro.
Ventisei anni fa a Milano, però, tutti erano più sorridenti. Mi fermavano le nonne, materne: «Quando nasce?». Adesso no, dopo il Covid la gente di Milano cammina come non vedendo niente. E con questa guerra poi, lontana eppure vicina. Faticano i passanti a sorridere ai bambini in passeggino. Come dentro a un silenzioso dubbio: è una cosa davvero buona, oggi, venire al mondo?
Lei, comunque, aspetta. Sotto Natale. Strano vivere questi giorni quasi in una immedesimazione. Ripenso a quei due, pellegrini verso Gerusalemme, con un altro sguardo. Quanto doveva essere faticoso procedere a piedi per i sentieri, o sobbalzando sul dorso di un somaro, al nono mese; e che freddo, di notte. Mi viene in mente quella poesia che si studiava a scuola da bambini, in cui Maria e Giuseppe pellegrini non venivano accolti in alcuna locanda, e il tempo scorreva, e la notte ormai era fonda. Ora, in questo singolare Avvento accanto a mia figlia, mi pare di capire di più di quella notte remota.
Per fortuna ieri c’era il mercato rionale, e noi due insieme, liete, in giro fra le bancarelle. Per fortuna, perché, non so come, al mercato si ritrova un’altra Milano. Un vecchio signore si ferma e domanda quando nasce. Un ambulante egiziano si congratula: «È il primo? Io ne ho quattro!» Da dietro ai banchi i tunisini, i marocchini sorridono, vedendo una donna prossima al parto. La guardano come fosse un segno di benedizione. Noi, invece, tranne pochi anziani, siamo dentro questa tacita paura.
Man mano che passano i giorni avverto la tensione nella cervicale irrigidita, non ho fame, fatico a dormire. Eppure non ero ansiosa per me, al primo figlio. Quando mi dissero di fare il corso per partorienti mi imbizzarrii: «Un corso? Io sono una donna, e saprò partorire come hanno fatto mia madre e le mie nonne e bisnonne», risposi orgogliosa. Cosa che, in effetti, fu. Doloroso, ma non difficile partorire. È una battaglia, ma una battaglia bella, per fare vivere, non per fare morire.
Poi, in auto nel traffico impazzito di Milano al 12 dicembre, le chiedo: «Ma lui, non dice niente?». «Non parla molto», risponde. Non è vero, le dico, devi stare in silenzio e lo sentirai. Parlagli. Nel buio del suo limbo, che sappia di non essere solo.
(A pensarci, dev’essere piuttosto spaventevole nascere. Cacciati dal proprio mondo, come da un Eden: le spinte brusche, la luce che acceca gli occhi, l’aria che brucia i polmoni).
Fattelo mettere subito sul petto, che riconosca il battere del tuo cuore. Tienilo bene stretto fra le braccia, ha paura del vuoto.
Ma le saprai, queste cose, in quel momento, come venute da una sconosciuta te stessa. Sono cose, bambina, che noi donne sappiamo da sempre. Un mistero: dal greco mueo, “chiudo la bocca”, “resto muto”. Incomprensibili cose, forse, oltre la nostra metà di cielo.
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