C'è una parola, d'uso sempre più quotidiano, che mi fa venire le vertigini: haters. Anzi, a ben pensare sono due, le parole: haters ma anche influencers. D'obbligo l'inglese, perché si parla di cose importanti: gossip e persone che fanno denaro attorno al gossip. Certo le traduzioni italiane «odiatori» o «influenzatori» sono alquanto indigeste, ma tant'è, quale che sia il significante, il significato resta. Dunque, gli haters faccio proprio fatica a immaginarmeli, e la prima cosa a cui penso è al loro povero e innocente fegato. In sostanza fanno gli arrabbiati per mestiere. Stakanovisti dell'odio, maniaci del non sopportare gli altri, un tempo li si sarebbe definiti «invidiosi», «rognosi» o, prima della benefica legge Basaglia, «nevrastenici». Mi immagino la scena del papà col figlio: «Da grande fai ingegneria!» «Non ci penso neanche, farò l'hater!». Più complesso è sottile il fenomeno degli influencers. Decenni fa c'erano i goffi uomini-sandwich. Ora ci sono presunte modelle o presunte cantanti con presunti attori e via presumendo che in un gioco direi assai difficile sono famosi perché sponsorizzano prodotti che li rendono famosi. Uno scambio di gentilezze tra uomini e merci. Una vantaggiosa omogeneizzazione.