Chiara Ferragni, gli Uffizi e il senso dell'influencer
Reazioni entrambi sbagliate. Non solo perché i veri influencer sono diventati tali lavorando moltissimo (e continuano a faticare 7 giorni su 7 per restare famosi). Ma soprattutto perché ciò che fanno ci apre le porte di un mondo che può non piacerci ma che è enorme. Sta a noi decidere se provare a studiarlo, magari per trovare domani forme di dialogo (come ha fatto don Alberto Ravagnani con Fedez su Instagram) o chiudere la porta e rintanarci nelle nostre stanze facendo finta che tutto questo non esista e continuando a vivere nelle nostre «zone di conforto».
Anche considerare gli influencer una sorta di supereroi è un errore. E solo in Italia la foto di Chiara Ferragni agli Uffizi può produrre oltre 4 milioni e mezzo di pagine digitali (avete letto bene: 4 milioni e 500 mila pagine!), con articoli, post, tweet, foto e commenti più o meno profondi.
A ben vedere il valore di un influencer sta proprio qui. Non nel fatto di avere aumentato del 27% gli ingressi agli Uffizi nel target under 25 (tanto più che secondo lo storico dell'arte Tomaso Montanari, «negli stessi giorni i Musei Vaticani e il Colosseo hanno fatto meglio e senza aver invitato influencer: +41% e + 38%»). Ma nell'avere rilanciato gli Uffizi in oltre 4 milioni e mezzo di pagine digitali.
Pensateci, perfino le decine di post con fotomontaggi apparsi su Facebook, con Chiara Ferragni non davanti alla Venere di Botticelli ma in paesini del Sud, a tifare per squadre minori di volley o all'ingresso della sede del Pd ci dicono qualcosa di molto preciso: tutti noi vorremmo un influencer supereroe capace di risollevare solo con la sua presenza le sorti di ciò che abbiamo a cuore. Eppure, sono decenni che ovunque vengono ospitati piccoli e grandi vip, che si prestano ad aprire una bottiglia di spumante, a farsi fotografare con il padrone di un ristorante o di una pizzeria, alla sagra del paese o a fare la foto con un assessore in cambio di vitto e alloggio. La differenza è che stavolta la star di turno arriva dal mondo digitale e ha un definizione nuova: «influencer».
Poi c'è la nostra invidia e la nostra fatica a capire perché certe persone possano guadagnare cifre astronomiche facendo un post su Instagram. Già, com'è possibile che l'attore americano Dwayne Johnson, con oltre 187 milioni di follower, guadagni più di 1 milione di dollari per ogni post sponsorizzato? Stesso discorso per la numero due, Kylie Jenner, che con 181 milioni e mezzo di follower guadagna 986.000 dollari per post, e per il calciatore della Juve Cristiano Ronaldo, che si piazza terzo nell'hit parade mondiale degli influencer più pagati con 889mila dollari a post.
Per la cronaca, al 1° posto degli influencer italiani c'è Chiara Ferragni, che però nella classifica mondiale di Hopper HQ occupa il 65° posto (l'anno scorso era 43esima). Per sponsorizzare un prodotto sul suo profilo le aziende arrivano a pagare 59.700 dollari a post.
Davanti a queste cifre, è facile capire come mai molti ragazzi sognino di fare gli influencer. Ciò che nessuno spiega loro è che 1 su un milione ce la fa a diventare famoso, e per arrivarci fatica e spende tantissimo. E fatica e spende ancora tantissimo per restare ogni giorno sulla cresta dell'onda del successo.
Indignarsi per tutto questo serve a ben poco. Molto più invece può servire raccontare ai ragazzi tutta la realtà degli influencer. E soprattutto quella delle migliaia di ragazze e ragazzi che si credono influencer e non lo sono e che un pugno di mi piace o per un weekend in un hotel svendono se stessi sui social.