Una domenica di ordinaria follia dello sport quella del derby di Roma dove, dopo una giornata di scontri nei pressi dello stadio, riesce a entrare indisturbato all’Olimpico un tifoso con una maglia col nome “Hitlerson” stampato sopra al numero 88. Insomma, “Il figlio di Hitler” gioca la sua idiota partita sugli spalti, indossando quel numero che, negli ambienti neonazisti, viene abbinato al saluto “Heil Hitler”. Poi i soliti canti antisemiti e il solito clima da guerriglia urbana. Tutto ciò mentre rombano, potenti, i motori delle monoposto impegnate nel secondo Gran Premio di Formula 1 della stagione, in Arabia Saudita, Paese con gravissimi problemi di rispetto dei diritti umani, che ha contato oltre mille esecuzioni capitali negli ultimi sette anni, che pratica regolarmente la tortura nelle proprie carceri, perfino contro i minori, che non ha nessuna garanzia di trasparenza nei processi, che perpetua continue gravi violazioni nei confronti di donne e stranieri. Paese che la Lega Serie A di calcio ha scelto, annunciandolo trionfalmente durante la settimana scorsa, per disputare altre quattro edizioni della Supercoppa italiana, in cambio di 23 milioni di euro.
Fino a che punto lo sport mondiale e il calcio italiano si presteranno a diverso livello allo squallore di queste operazioni di rimozione (e sdoganamento) dell’orrore e di sportwashing? Dov’è il limite? Quanti fiumi di denaro devono ancora scorrere per completare questa azione anestetica collettiva con lo scopo di normalizzare ciò che dovrebbe, umanamente, far inorridire? «Pecunia non olet», dicevano i latini, i soldi non puzzano ma purtroppo (o forse per fortuna) il fetore inizia a essere insopportabile. La puzza di marcio di un mondo che continua a usare lo sport in modo ostinatamente contrario ai suoi valori fondamentali, a quelle idee di rispetto e inclusione che tante volte da queste colonne abbiamo raccontato. E che naturalmente, grazie al cielo, continuano a resistere.
Mentre nostalgici neonazisti esaltavano la propria follia approfittando, ancora una volta, di quella specie di zona franca rappresentata dagli stadi di calcio, mentre il denaro di un regime campione del disprezzo dei diritti umani, dopo essersi comprato un altro pezzo del nostro calcio, permetteva a dei bolidi di sfrecciare in mondovisione, anche domenica scorsa centinaia di migliaia di ragazzi e ragazze, di loro allenatori e di dirigenti, hanno riempito piccole palestre scolastiche, campi più o meno spelacchiati, piscine manutenute grazie agli sforzi sovrumani di società che alla fine, in qualche modo, ce la fanno, senza compromessi, senza mercificare la propria passione, senza vendersi l’anima al diavolo. Un puro esempio di resilienza, come quello di Mattia Maestri, un atleta che, domenica, ha riscattato da solo le immagini odiose dello stadio Olimpico e del circuito di Gedda. Forse il suo nome non fa scattare l’abbinamento automatico a chissà quale volto noto del mondo dello sport, ma se ci pensate un attimo lo ricorderete senz’altro: Mattia Maestri da Codogno, esattamente tre anni fa era il paziente 1 del Covid e stava lottando, disarmato, contro un nemico invisibile e tremendo. Domenica scorsa, esattamente tre anni dopo, Mattia ha tagliato il traguardo della Maratona di Roma. Perché lo sport vero, alla fine e in qualche modo, ce la fa.
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