«Ho cercato la mia anima e non l'ho trovata. Ho cercato Dio e non l'ho trovato. Ho cercato mio fratello e li ho trovati tutti e tre». Questa scoperta, di cui ci mette a parte William Blake, trova felice conforto sia nella scienza del linguaggio sia nel messaggio evangelico. Gli studiosi della lingua concordano nel ritenere che la parola “fratello” (latino frater, greco phráter, inglese brother, tedesco Bruder: tutti dal comune indoeuropeo *bhrater) rimanda non a una definizione di ordine genetico né a una dimensione verticale centrata sul sangue, ma a una definizione di ordine giuridico e a una dimensione orizzontale centrata sulla relazione: ad esempio, frater nell'antica Roma era un membro della “fratrìa”, una comunità allargata. Per questo le lingue indoeuropee si sono dovute inventare un modo per indicare la consanguineità dei fratelli: il latino supplisce con germanus, il greco con adelphós (dove risalta l'origine materna: alpha copulativo + delphýs, “matrice”, “utero”). Ancor più decisiva la novità cristiana. Infatti la nozione genetica di fratellanza, acutamente sentita nell'Antico Testamento, si perde totalmente nel Nuovo Testamento: «Ecco mia madre e i miei fratelli. Chiunque faccia la volontà del padre mio nei cieli è mio fratello e sorella e madre» (Matteo 12, 49). Il messaggio evangelico identifica “fratello” e “prossimo” (plesíon).