Chi cerca la morteRenzoPegoraro
Si possono comprendere le sofferenze, la "stanchezza di vivere", i disagi di certi malati cronici gravi, o in condizioni di disabilità a seguito di incidenti o traumi. Ma sostenere culturalmente, eticamente e legalmente l'assistenza al suicidio per questi malati suscita gravi riserve e induce a valutazioni morali e giuridiche su come prevenire una eventuale richiesta di suicidio, anziché consentire l'aiuto a esso. D'altra parte esiste già una legge (219 del 2017) che riconosce la libertà del malato di rifiutare i trattamenti proposti o in atto, assumendosi la propria responsabilità morale di tale rifiuto o sospensione. Si può accettare – anche se talvolta con disagio – che un malato chieda "lasciatemi andare", per cui, sospendendo i trattamenti, viene accompagnato con le cure palliative e la sedazione, se necessario, lasciando che la morte arrivi. Non la si provoca né si collabora al suicidio medicalmente assistito, o assistito da altri. Anzi, si ribadisce un messaggio di alto significato sociale e simbolico secondo il quale ogni persona avrà sempre una "vita assistita" e accompagnata fino alla fine, alleviando il dolore, riducendo le paure, confortandola anche spiritualmente.
Il suicidio è sempre una sconfitta, per tutti. Accettare, accompagnare, alleviare, anche quando la medicina non può più guarire o le situazioni si cronicizzano con grave disabilità o difficoltà a vivere, per dare un senso al proprio vivere e al proprio morire, è sempre un'esperienza di umanità, senza togliere la vita da sé o con l'aiuto di altri.
Cancelliere
Pontificia Accademia per la Vita