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Chance bipartisan per la legge elettorale

Stefano De Martis domenica 28 marzo 2021
Come un fiume carsico, il tema della legge elettorale accompagna costantemente il dibattito politico, spesso scorrendo sotto traccia, talvolta emergendo in modo impetuoso. È un tema decisivo per una democrazia, ma l'ineliminabile complessità tecnica lo rende ostico per l'opinione pubblica, a meno di non ridurlo a slogan propagandistico. Accadde già nel 1953 con la riforma in senso maggioritario fortemente voluta da Alcide De Gasperi. La legge stabiliva che il 65% dei seggi della Camera fosse assegnato alla coalizione vincente purché questa avesse già superato autonomamente la maggioranza assoluta dei voti. Con questa soglia, secondo il lessico adottato in tempi recenti della Corte costituzionale, non si sarebbe parlato neanche di premio di maggioranza in senso stretto, ma di premio di governabilità. La Dc e i suoi alleati mancarono l'obiettivo per poche migliaia di voti e la legge, duramente contestata da sinistra dentro e fuori il Parlamento, fu abrogata dopo un anno. Ma è passata alla storia così come la propaganda dell'opposizione l'aveva ingiustamente bollata: “legge truffa”. Oggi nel dibattito pubblico la questione della riforma elettorale è ovviamente oscurata dalla lotta alla pandemia. Ma tra i partiti se ne discute molto, anche se la conclusione fisiologica della legislatura cade nel 2023 e fino alla primavera del prossimo anno di consultazioni politiche anticipate è quasi impossibile parlare. L'attualità dell'argomento è comunque collegata alle valutazioni tattiche delle forze politiche. I sondaggi riferiscono che in questo momento, con il sistema attualmente in vigore, il centro-destra avrebbe la maggioranza nel prossimo Parlamento, il che rende particolarmente attivi sul fronte della riforma i partiti del centro-sinistra. Entrambi gli schieramenti, tuttavia, attraversano più o meno intensamente una fase di ridefinizione degli assetti interni e il sistema elettorale non può non avere un'influenza molto rilevante sulle scelte delle formazioni politiche, soprattutto sul versante delle alleanze. E poi: quale migliore occasione dell'ombrello offerto dal governo Draghi per affrontare un argomento auspicabilmente bipartisan? Fermo restando che dalle esperienze passate arrivano due insegnamenti: il primo è che quel che risulta vero in un dato momento e con una data offerta politica, può essere radicalmente smentito in un altro contesto; il secondo è che le riforme elettorali concepite con l'intento di predeterminare in un senso o nell'altro l'esito del voto, spesso si ritorcono contro chi le ha promosse. Oltre a preoccupazioni tattiche, però, ci sono importanti motivi “di sistema” che sollecitano una modifica della legge elettorale. Tra questi, uno dei più evocati riguarda l'esigenza di dare stabilità ai governi e di consentire ai cittadini di scegliere i governanti. Qui c'è un equivoco di fondo da sfatare: se alcuni sistemi elettorali possono spingere in questa direzione anche con una certa efficacia, nessun sistema elettorale è in grado di determinare in modo certo e completo obiettivi che nel nostro ordinamento sono raggiungibili soltanto con interventi di revisione costituzionale. La stessa Consulta, nella sentenza del 2017 sull'Italicum, ha affermato che «in una forma di governo parlamentare, ogni sistema elettorale, se pure deve favorire la formazione di un governo stabile, non può che essere prioritariamente destinato ad assicurare il valore costituzionale della rappresentatività». Un altro motivo strutturale che richiama la necessità di una riforma elettorale è l'avvenuta riduzione del numero dei parlamentari, che di per sé tende a produrre un effetto moderatamente maggioritario, soprattutto a livello di territorio. Ancora non si sono concretizzati gli opportuni interventi compensativi sul piano costituzionale, che pure avevano già intrapreso l'iter parlamentare, ma anche in sede di legge elettorale bisognerà tener conto che non è la stessa cosa eleggere 400 deputati e 200 senatori invece che 630 e 315.