Ricorrono molti anniversari importanti in questi mesi, da quello di don Milani a quello di Rossellini, da quello di Totò a quello di Carlo Cassola. Quando abitavo a Parigi, anni sessanta del Novecento, avevo una cara amica in Lidia Campolonghi, francese perché il padre era un uomo politico socialista esule per antifascismo. Era cugina di Carlo Cassola, il quale aveva anzi scritto un piccolo libro sulla famiglia Campolonghi, originaria mi pare di Pontremoli, edito dalle Edizioni del Gallo, socialiste, che lei mi aveva regalato. Con Livia e altri amici italiani avevamo perfino fondato una sezione del Psiup, l'unico modo per poter fare attività politica tra gli immigrati (non solo italiani, ché erano gli anni dell'afflusso a Parigi dei contadini portoghesi, che andavamo ad accogliere alla Porte d'Orléans quando arrivavano stanchi e frastornati su vecchi pullman stracarichi di persone e masserizie) senza incorrere nel rigore delle leggi francesi, che chiamammo ambiziosamente Nuova Internazionale. Un giorno Livia mi telefonò per invitarmi a pranzo a casa sua e per farmi conoscere il cugino Cassola, certa di farmi piacere perché spesso si era parlato delle sue opere ed ero un suo grande ammiratore: la lettura di Fausto e Anna e del Taglio del bosco, in particolare, e dell'inchiesta sui Minatori di Maremma che aveva fatto insieme a Bianciardi, era stata per me molto importante. Come Livia, ero indignato per il modo in cui la neo-avanguardia (che chiamavamo tra noi "iper-capitalista") aveva trattato scrittori destinati a restare, al contrario di quasi tutto il Gruppo 63, come lui e Bassani. Cassola fu con me circospetto ma molto gentile, sapeva della mia inchiesta sugli immigrati meridionali a Torino, mi sapeva amico di Fortini e collaboratore dei "Quaderni piacentini" e nel giro dei "Quaderni rossi". Sapeva soprattutto che ero amico e in qualche modo allievo di Aldo Capitini, ma non si era ancora impegnato quasi ossessivamente in un'azione politica e organizzativa di matrice pacifista, sostenitore accanito del disarmo unilaterale, a cui si convertì anche a seguito delle grandi delusioni nei confronti del centro-sinistra e della sinistra italiana. Sbagliando, vedevamo in questa sua instancabile attività il segno di una nevrosi, non solo di una persuasione. Ebbi a ricredermi leggendo anni dopo un piccolo libro-intervista approntato per un editore marginalissimo da un insegnante palermitano, Antonio Cardella, Conversazione su una cultura compromessa, che era un durissimo atto di accusa contro le ipocrisie e gli opportunismi degli intellettuali italiani di allora (e figuriamoci cosa non direbbe di quelli di oggi!). Erano gli anni della coesistenza e del boom, ma era anche quelli della perdurante paura atomica. Confermano l'impressione di un Cassola ostinato e lucido pacifista le lettere che negli anni 1977-84 (è morto nel 1987) scrisse ad Angelo Gaccione, raccolte in Cassola e il disarmo. La letteratura non basta, edite di recente da Tra le righe, piene di una sincerità e di una foga che ce lo avvicinano anche nel confronto col nostro presente, tra barbarie tecnologica (ancora l'atomica!) e barbarie antica, riesplosa anche per la prepotenza della prima, per i modelli di vita imposti da chi detiene il potere economico e politico nei Paesi più ricchi. Le lettere a Gaccione ci rendono Cassola più vicino, da amare non solo per la limpida forza del narratore di vite comuni, anche per le sue convinzioni politiche in difesa, a ben vedere, proprio di quelle stesse vite comuni, che sono poi anche le nostre.