Nelle trame del tempo, la memoria dorata di Carolle Bénitah
C’erano una volta gli album di famiglia. Quelli dei momenti che contano, da sfogliare quando il tempo ci interroga su quello che siamo. Pagine visive di memoria che parlano di noi e che consegniamo a chi viene dopo. Foto che fermano il tempo e lo raccontano. Nell'epoca della bulimia di immagini senza memoria che viviamo oggi, sono un autentico dono i lavori di Carolle Bénitah (Casablanca, 1965): guardando gli album dimenticati della sua famiglia, le foto ritrovate dei suoi genitori, le sue foto di cui non ricordava più nulla e persino quelle abbandonate nei cassetti da sconosciuti e finite nei mercatini delle città, nel 2001 – dopo aver fatto la stilista – ha cominciato a usare la fotografia per esplorare i temi della famiglia, della memoria, del rapporto con il tempo. Quello dei ricordi e quello dell’oblio, cucendo – nel vero senso del termine – una trama fra il passato e il presente, quello che è stato e quello che è. Il tempo che passa con i suoi silenzi, con “quello che non si può dire” e “quello che non si può vedere”, ma anche le persone che “non dimenticherò mai” – per citare i titoli di alcune sue fortunate serie di immagini. Foto che non sono quasi mai “pure”, così come sono state scattate. Perché Carolle Bénitah lascia il segno, tratteggia un fil rouge con ricami, interventi di scrittura, foglie d’oro, cercando di reinterpretare la sua storia personale come figlia, moglie e madre in maniera universale.
La molla che ha acceso questo intenso percorso nella memoria è racchiusa nella sua prima “collezione”, Photos Souvenirs, 2012 – 2017. «Ho iniziato ad interessarmi alle fotografie della mia famiglia sfogliando un album della mia infanzia e mi sono ritrovata sommersa da un’emozione di cui non riuscivo a determinare l’origine – racconta Bénitah -. Quelle fotografie scattate quarant’anni prima e delle quali non mi ricordavo nulla del momento dello scatto, né di quello che aveva preceduto o seguito quell’istante, risvegliavano in me un’angoscia derivante da qualcosa di familiare ma anche di totalmente sconosciuto, quasi un estraniamento freudiano. Quei momenti fissati sulla carta mi rappresentano, parlano di me, della mia famiglia e fanno emergere domande sulla mia identità, il mio posto nel mondo, la mia storia familiare con i suoi segreti, le paure che mi hanno formato e che fanno di me quello che sono oggi. Ho deciso di esplorare la memoria dell’infanzia per capire chi sono e per definire la mia identità di oggi».
Questo lavoro Carolle lo fa su di sé. Ma anche sulle storie degli altri. «Mentre lavoravo sul mio archivio personale, mi sono accorta che c’erano pochissime immagini dei miei genitori prima del loro matrimonio: un deserto iconografico spiegato dal fatto che erano nati negli anni Trenta in un Marocco ancora senza acqua corrente o elettricità. Le poche fotografie custodite da mia nonna erano sotto chiave in modo che nessuno potesse toccarle, per evitare di rievocare la tragica perdita di uno dei suoi figli. Un velo di silenzio aveva ricoperto e reso inaccessibile questa vita precedente. Mi trovai orfana delle immagini del passato». Per questo «colleziono fotografie anonime che compro nei mercatini delle pulci. Sono magnetizzata dalla felicità che queste foto mostrano, da queste persone che non conosco ma che sono esistite, hanno amato e sono scomparse. Sono fantasmi che mi seguono quietamente, e io me ne approprio, creando un album di famiglia immaginario che li sottragga dall’oblio. Queste istantanee, disponibili sulle bancarelle perché gli eredi non se ne curano e se ne sbarazzano, cambiano il loro status con un semplice gesto: l’applicazione della foglia d’oro sulla fotografia. La superficie liscia, piatta dell’oro permette da un lato di nascondere le identità dei soggetti, dall’altro riflette i nostri volti quando la guardiamo. Scelgo fotografie che riportino delle situazioni di déjà-vu, una posa familiare, momenti felici che illustrano storie comuni a ogni famiglia». È il senso di Jamais je ne t’oublierai – Non ti dimenticherò mai, 2018, diventato un libro meraviglioso, vincitore del Prix Hip 2020, realizzato dalle raffinate edizioni L’Artiere di Bologna.
Un gruppo di donne in spiaggia, 2018, dalla serie "Jamais je ne t'oublierai" - © Carolle Bénitah - Courtesy Alessia Paladini Gallery Milano
Carolle ricuce il suo rapporto con il tempo anche con ago e filo. «Le donne ricamano, aspettando il ritorno degli uomini al focolare. Il ricamo è legato strettamente anche all’ambiente in cui sono cresciuta. Le ragazze di buona famiglia imparavano a ricamare e a cucire. Sono le attività riservate a donne perfette. Mia madre ha ricamato il suo corredo. Questa attività non ha niente di sovversivo, ma io la rendo sovversiva. L’intervento di cucito rimanda ai conflitti, ai drammi, al dolore legato alla parte più oscura della storia di qualunque famiglia, assente, invisibile nelle fotografie. Il ricamo, un lavoro lento e preciso è la metafora di una minuziosa operazione di cura di sé e del tempo che passa».
Un viaggio nella memoria fino a Le jour le plus beau (2020), opera che dà il titolo alla mostra con i diversi lavori della fotografa marocchina che vive e lavora a Marsiglia, ospitata nel nuovo e delizioso spazio della Alessia Paladini Gallery, in via Maroncelli 11 a Milano, fino al 30 giugno (aperta da martedì a venerdì dalle 12 alle 19, il sabato e il lunedì su appuntamento): una riflessione sullo scorrere del tempo, di come il tempo che passa cambi le cose, le persone, i sentimenti. Le jour le plus beau è una sequenza di 24 immagini: la foto in bianco e nero di un matrimonio viene passata da un processo di fotocopiatura xerox che cancella – come il tempo - alcuni elementi, evidentemente «non necessari», che si perdono da una dissolvenza all’altra. «Ciò che rimane è l’essenza delle cose». L’essenza dei ricordi. L’essenza di chi siamo. Che la stilista-fotografa, Carolle Bénitah, fissa, dipinge e cuce sui nostri occhi.
Una foto e 949 parole.