Diciamo la verità: al primo colpo il docu-reality statunitense I miei 60 giorni all'inferno non convince più di tanto. Quello che viene definito “esperimento sociale” sembra abbia qualcosa di falso. Forse sarà per il solito doppiaggio così poco credibile. Fatto sta che si stenta a prendere per autentica la storia di nove volontari innocenti che si infiltrano sotto copertura in un carcere statunitense di massima sicurezza. E pensare che siamo alla terza stagione (in prima tv in Italia il mercoledì alle 22.00 su Crime+Investigation, canale 118 della piattaforma Sky) mentre è in preparazione la quarta. Sede dell'“esperimento” è il Fulton County Jail di Atlanta, un penitenziario di massima sicurezza tra i più popolati in assoluto: duemilacinquecento detenuti. Ogni episodio viene introdotto dallo scrittore russo Nicolai Lilin, con un'aria piuttosto inquietante, che nel corso della sua vita ha provato l'esperienza carceraria nella Russia post-sovietica. L'intento della serie sarebbe quello di mettere a fuoco da vicino e senza filtri le principali lacune del sistema carcerario americano: dal sovraffollamento agli episodi di corruzione, passando per lo spaccio e l'utilizzo di droga, fino agli scontri tra gang. Questo dovrebbe aiutare il responsabile della struttura carceraria, Mark Adger, a scoprire meccanismi, inganni e traffici di cui non potrebbe mai venire a conoscenza in altro modo: «Saranno i miei occhi là dentro», afferma Adger di fronte alle telecamere. Telecamere che con la scusa di un documentario sulla vita nelle carceri americane si muovono con gli operatori nelle zone comuni del carcere, mentre altre, di nascosto, vengono piazzate in tutti i luoghi, celle comprese, per riprendere ventiquattr'ore su ventiquattro i detenuti. La presenza delle telecamere, almeno di quelle a vista con dietro l'operatore, condizionano ovviamente l'atteggiamento dei reclusi, anche se non mancano situazioni forti con violenze fisiche e verbali. Colpisce invece nel privato la quantità di droga che sembra circolare in quella che è notoriamente riconosciuta come una struttura penitenziaria controversa, pericolosa, con metodi estremamente rigorosi e condizioni di vita estreme e rischiose. Il tutto ripreso, come suol dirsi, «senza censura», ma con il montaggio che, di fatto, detta il racconto.