Il “vecchio” fratel Ugo (il bulldog) subiva i nostri fiaschi lanciandomi occhiate di rimprovero; il “nuovo” Ugo (il cocker) aveva adesso un'aria complice di sconforto. I Denarioni ci avevano proscritti – noi due. Eravamo stati rigettati insieme, avevamo attraversato insieme le stesse prove. E questo era bello. Era questo il senso della nostra missione. E mentre lo sguardo del “vecchio” poteva evitare il mio per molti giorni senza alcun rimorso, il braccio del “nuovo” mi cingeva regolarmente le spalle, da buon amico, con un calore magniloquente: «In verità, siamo venuti soprattutto per evangelizzare le pieghe infedeli dei nostri cuori – pontificava. Come annunciare l'amore del prossimo se non amo anzitutto il prossimo che tu sei per me?». Poco ci mancava e avrebbe pensato che il Signore ci aveva mandato in Metagonia al solo scopo di farci diventare compagni. Eravamo diventati gesuiti? Immaginate il mio imbarazzo quando mi servì questo piccolo apologo: «Se la corda che ci collega si rompe, è un male, ma questo male può aprirci a un bene più grande. Perché allora, per ristabilire il legame, bisogna fare un nodo. E il nodo accorcia la corda. Più rotture ci sono, più nodi ci vogliono. Ciò che doveva dividerci alla fine ci unisce… grazie ai nodi…». Non mi arrischiai a disilluderlo. Non potevo dirgli decentemente che aveva fatto il nodo un po' troppo vicino al mio collo. Né fargli notare, francamente, che il suo paragone poteva incitarmi a una nuova rottura. Quando il bulldog ombroso si trasforma in cocker carezzevole, può essere imprudente contraddirlo. Facevo dunque mostra di un viso di zucchero. Stavo al suo gioco mio malgrado, pensando che le sue suzioni salvifiche avevano effettivamente infiammato la mia amicizia e non il mio disagio. In fondo, forse, preferivo il vecchio fratello al nuovo, il burbero al dolciastro... Tuttavia gli ero sempre grato del cibo che immancabilmente ci procurava. Era riuscito anche questa volta a portare di che mangiare per parecchi giorni. Per acquistare queste derrate aveva venduto il suo orecchio sinistro a un Denarione che ne faceva collezione. Eravamo scappati prima del giorno in cui avrebbe dovuto tagliarselo. Ero fatto male, senza dubbio. Ma non si mi giudichi troppo in fretta. Se mancavo di benevolenza fino a quel punto, è che mancavo di sonno. Non si dice mai abbastanza quanto il sonno sia la base dell'attività missionaria. Si parla del sonno del giusto, mentre quello del criminale è agitato dal rimprovero della sua coscienza. Non si stanno scambiando causa ed effetto? Forse è perché aveva un sonno agitato che il pover'uomo è diventato irritabile, che i suoi occhi si sono iniettati di sangue e che la sua inclinazione ha ceduto poco a poco al crimine. Il Signore darà pane ai suoi amici nel sonno dice il salmo. Ma quando non dorme, Dio cosa fa? Come si fa ad alzarsi col piede giusto se non si è dormito bene? Se non si è chiuso occhio, come aprire entrambi sul mattino di ogni volto? Il tasso che iberna è abbagliato dalla primavera. Ah s'io fossi tasso! Per citare Macbeth, niente è più fatale dell'avere «assassinato il sonno». Oggi, se dovessi fondare una scuola di evangelizzazione, insegnerei innanzitutto a dormire bene. Ma il dormire si insegna? Si può vegliare sul proprio sonno? Non sto parlando precisamente come una persona insonne? A fratel Ugo doveva bastava stendere la sua stuoia in un posto qualsiasi e subito russava come un campanaro. Dimenticava la Metagonia. Dimenticava la mia faccia. Facile, in seguito, ritornare all'una e all'altra nella freschezza dell'inizio. Per me, soprattutto da quando il serpente mi aveva morso mentre mi addormentavo, non c'erano che sonnolenze inquiete e risvegli pesanti. La notte e il giorno si confondevano nel grigiore di un'attività senza brio che aggravava una fatica senza riposo. Quando Ugo mi salutava con l'aria bambolotta di quelli che hanno dormito a sazietà, dovevo strofinarmi gli occhi a lungo per convincermi che quello non era un incubo. Di tanto in tanto mi raccontava loquacemente i suoi sogni meravigliosi. La Madonna veniva a visitarlo, mi confidava. L'avvolgeva nel suo grande manto blu picchiettato di stelle e lo cullava cantando
«Abbi fede, figlio, sono qui…»: «Quasi, parola per parola, quello che mi hai detto tu e che mi ha consolato, sai, in quel pomeriggio di vento terribile…». Non poteva immaginarsi fino a che punto glielo avessi detto meccanicamente. Era pure persuaso che la Madonna accordasse a me favori spirituali ancora più dolci, e che io pregassi sommessamente quando in verità digrignavo i denti: «Si, Lei avvolge anche te nel suo manto blu…» – Che sciocco! dicevo tra me. Se soltanto il manto blu fosse un buon sacco a pelo! Mentre Ugo mi diceva quelle parole sdolcinate, era notte e ci stavamo accampando vicino a un fiume con le zanzare che si davano alla pazza gioia e io mi preparavo a passare la notte voltandomi e rivoltandomi nella tunica di Nesso, altro che il manto della Vergine. Ora, contro ogni aspettativa, fui effettivamente visitato. Era un sogno? Una locuzione interiore? Ero come un bambino nelle braccia di sua madre. Non vedevo il suo viso, ma ne sentivo la voce, una voce tenera, ma di una tenerezza al tempo stesso esigente e divertita, come quella di una mamma il cui bambino ha provato a fare come i grandi ed è riuscito solamente a devastare la cucina. Non saprei trascrivere esattamente le sue parole. Posso solo renderle attraverso una parabola nella quale si avrebbe torto di sentire gli accenti di ironia o di accusa che la mia voce di peccatore non può trattenersi dal mettere: «In fretta, figlio mio, sei partito alla ricerca della pecora smarrita. Andando, ti proiettavi già teneramente sulla strada del ritorno, tenendola trionfante sulle tue spalle – e così non hai prestato sufficiente attenzione i tuoi passi. Ti ha sorpreso la notte e tu stesso ti sei smarrito. Allora scivoli dalla cresta, precipiti in un burrone e la tua tibia si rompe. Impossibile per te risalire la china. E dunque, dopo alcune ore, è la pecora che ti ritrova. È lei che ti riscalda con la sua lana. Ma non dovevi ritrovare le forze tra le rocce? La ringrazi dunque, la baci, e, quando si rannicchia sul tuo seno, la sgozzi col tuo coltello. Non eri fiero no, quando solo, zoppo, sei ritornato all'ovile. Non era sulle tue spalle la bella pecora. Hai mangiato la sua carne cruda e con le sue ossa più dure ti sei fatto una stecca. Devo aggiungere, figlio mio, che durante la tua assenza le altre novantanove sono state rubate?». La mattina dopo, raccoglievamo le nostre cose per una nuova giornata di cammino. Fratel Ugo si girò verso di me: «Hai l'aria molto stanca. Se ne avessi la forza, ti prenderei volentieri sulle mie spalle».
(24, continua. Traduzione di Ugo Moschella)