Sono molti, moltissimi gli scrittori e i poeti che hanno scelto, quasi sempre per ragioni alimentari, di lavorare come impiegati o come funzionari pubblici. Tra i russi troviamo Turgenev al ministero dell'Interno; Puskin dipendente del ministero degli Esteri; Gogol' impiegato al ministero delle Finanze; Dostoevskij per qualche tempo fu cartografo. Il più grande e il più noto di tutti è Kafka, assicuratore; tra i francesi, Maupassant fu svogliato subalterno ai ministeri della Marina e dell'Istruzione; Mallarmé esordì come apprendista nell'ufficio del Registro; Stendhal console impaziente a Civitavecchia; Valéry lavorò al ministero della Guerra; Verlaine impiegatuccio del Comune di Parigi. Fra gli italiani, Quasimodo operò al Genio civile; l'ing. Gadda si applicò in Sardegna e in Lombardia; Piero Jahier nelle Ferrovie; Emilio De Marchi fu ispettore all'Archivio storico di Milano; Ugo Betti bibliotecario al ministero di Giustizia; Italo Svevo prima in banca poi nella ditta del suocero; Collodi segretario nella prefettura di Firenze; Sergio Solmi all'ufficio legale della Comit... e non si finirebbe di citare.Di questi e molti altri personaggi si occupa Luciano Vandelli, docente di Diritto amministrativo nell'Università di Bologna, nel curioso volume
Tra carte e scartoffie (il Mulino, pp. 310, euro 22), il cui sottotitolo,
Apologia letteraria del pubblico impiego, ha forse tratto un po' in inganno il ministro dell'Interno, Anna Maria Cancellieri che nella prefazione parla di «piccolo-grande monumento all'impiegato pubblico, al burocrate», di «grande romanzo delle moderne democrazie"», mentre invece in grande maggioranza i letterati di cui Vandelli racconta le gesta hanno lavorato malvolentieri e appena possibile hanno lasciato l'impiego o avrebbero voluto lasciarlo. C'è anche l'alibi dei letterati che lamentano di dover "sprecare" ore in ufficio mentre chissà che capolavori avrebbero sfornato se avessero avuto più tempo, mentre il doppio lavoro, a volte, è un ottimo pretesto alla mediocrità. Valga l'esempio di Verlaine che subì un blocco creativo quando perse l'impiego: sua moglie, la povera e bistrattata Mathilde, scrisse che «da quando aveva tutta la libertà non aveva scritto un verso, mentre i precedenti erano stati scritti in gran parte durante le tranquille ore d'ufficio». Vandelli si destreggia assai bene tra autori che hanno conosciuto il lavoro impiegatizio, e altri che ne hanno scritto senza esperienza diretta, e il libro è quasi più una storia della letteratura che una ricognizione sociologica. Siccome nessuno è perfetto, segnalo due omissioni che considero gravi: non una parola, tra gli scrittori diplomatici, per il grandissimo e (da me) amatissimo Saint-John Perse, Nobel 1961, che dal 1924 al 1940 fece la carriera nel ministero degli Esteri francese fino a diventarne Segretario generale. E fu il poeta, con il ministro Aristide Briand, a redigere la prima bozza dello statuto della Società delle Nazioni. L'altro dimenticato è Angelo Fiore (1908-1986) che con i romanzi «Un caso di coscienza» (1963), «Il supplente» (1964), «Il lavoratore» (1967), «L'incarico» (1970), ha scritto una saga del lavoro burocratico di assoluta eccellenza. Fiore è un autore misconosciuto e non si è ancora avverata la profezia di Carlo Bo che nel 1970 assicurava che «verrà il giorno della sua piena affermazione», aggiungendo: «Del resto lo scrittore è così autentico da poter fare a meno di consensi immediati, dalla sua c'è già la premessa della conferma del tempo». Ma c'è anche chi ne mantiene viva la memoria, con il "Premio Angelo Fiore - Città di Bagheria" (www.angelofiore.com), che quest'anno giunge alla terza edizione.