Bulaj, la preghiera dei corpi e una ciocca di speranza
Il canto potente delle donne pugliesi per la madre di Dio che perse il figlio, il lamento di Demetra
È stata un’altra Pasqua di strade vuote. Senza i rituali della tradizione, soprattutto al Sud, dove la devozione è scandita da manifestazioni di popolo. E da strade vive. Invece niente processioni, niente falò, niente marce funebri, niente cori, niente uomini incappucciati e donne velate. Gesù ha portato la Croce e percorso la via che conduce al calvario senza nessuno intorno. Maria Addolorata ha vagato senza il conforto di altre madri. In Sicilia, non ci sono stati gli incappucciati di Enna, i diavoli di Prizzi, i giudei di San Fratello e i portatori del Cristo alla Colonna di Sortino. A Modica la Madonna vasa vasa ha incontrato eccezionalmente il Cristo Risorto nella foschia della notte, per vie silenti e deserte nella reinterpretazione ideata dall'artista albanese Adrian Paci al tempo della pandemia. Non ci sono state manifestazioni popolari in Campania, in Calabria, in Puglia. Qui, a Canosa di Puglia la Desolata è rimasta sola per le strade. Senza le centinaia di donne velate che si tengono strette l’una all’altra, diventando un unico corpo, mentre intonano lo Stabat Mater, la struggente preghiera del beato Jacopone da Todi. Non c’erano lo scorso anno. Non ci sono state neanche oggi. Anche se hanno partecipano ciascuna dalle proprie case al dolore della Madonna. Con la certezza che torneranno presto. Che riemergeranno tutte (e tutti) da questo tempo buio, come insegna e testimonia la storia di Gesù. Che nel momento più oscuro della notte appare la luce.
Con questo spirito, all'indomani della Resurrezione rivediamo un meraviglioso scatto di Monika Bulaj.
Il canto potente delle donne pugliesi per la madre di Dio che perse il figlio, il lamento di Demetra - Monika Bulaj
Le donne velate, tutte in nero, tutte di spalle. Ma una ciocca di capelli biondi “rompe” lo schema, sorprende. Dà luce a una visione che potrebbe anche rimandare ad altri mondi, ad altri popoli, ad altre manifestazioni. Insinua il dubbio al cliché. Si presenta come una “provocazione”, anche. Uno scatto che la fotografa di origini polacche esponeva due anni fa a Lodi in apertura della sua mostra Broken songlines al Festival della Fotografia Etica (che ha aperto la call per la prossima edizione del concorso "World.Report Award", info sul sito festivaldellafotografiaetica.it): un viaggio all’interno delle minoranze religiose e di come continuano a sopravvivere in alcune zone della terra, sulla scia dei suoi cammini ormai trentennali lungo le vie della fede, fra le Genti di Dio (Postcart) e Where Gods Whisper (Contrasto). Smontando stereotipi e credenze. Come fa con la ciocca di capelli. Perché quello che sembra non è. La didascalia contestualizza lo scatto: “il Canto potente delle donne pugliesi per la madre di Dio che perse il figlio, il lamento di Demetra”. «Ricordo il coinvolgimento soprattutto acustico di quel rito – dice Bulaj –. Ho provato a narrare questa musicalità che ovviamente non si può sentire attraverso la foto, ma solo immaginare». Eppure sembra di sentirle quelle voci, anche guardando gli altri fotogrammi, in bianco e nero, che compongono il servizio. «Quelle donne pregavano con il corpo. Erano centinaia, ma io le vedevo, strette, affiancate, camminare come fossero un tutt’uno. Un'immagine potente». Oggi, «in questo momento stranissimo, la preghiera dei corpi non c’è, non è possibile farla – continua Monika Bulaj -. Le manifestazioni e i rituali della nostra collettività non possono avvenire». Così quella ciocca bionda, agli occhi di chi guarda adesso, trasmette un altro messaggio: è come la luce in fondo al tunnel, il simbolo della speranza possibile, il colore che rompe il nero del lutto. «Dà fiducia alla nostra attesa, al momento di apnea che viviamo».
Monika Bulaj fotografa le persone. In questo tempo di città vuote, è andata a scovarle lungo le strade che ha percorso nei luoghi che per lei sono casa, quando non gira per il mondo: le montagne bergamasche e gli orizzonti di Trieste. Da un lato le storie di «luoghi isolati dove il Covid non è arrivato, nonostante tutt’intorno fosse zona rossa, ma dove era vivo il ricordo della spagnola e della peste di altri tempi». Dall’altro le storie dei migranti della vicina rotta balcanica, «fra posizioni strumentali, leggi violate, respingimenti di minori, vite spezzate, comportamenti senza umanità. Un dramma silenzioso che la pandemia ha contribuito a lasciare sotto traccia». Bulaj continua dunque il suo cammino di umanità. Fra le persone, anche in un mondo che appare vuoto. Secondo lo stile della sua fotografia. Un mestiere, come vita. Che racconta magnificamente in un testo di Where Gods Whisper. Dove gli dei si parlano: «All'inizio documentavo piccole e grandi religioni all'ombra di guerre antiche e recenti, e sulle loro ceneri. Poi, a un certo punto, sono state le mie immagini a cercarmi, a parlare da sole, raccontando delle preghiere e dei sogni, dell'acqua e del fuoco, della memoria, del teatro della festa dei morti, della via dei canti. Ora quello che faccio è una cosa semplice, quasi infantile: raccolgo schegge di un grande specchio rotto, miliardi di schegge, frammenti incoerenti, pezzi, atomi, forse mattoni della torre di Babele». Concludendo: «Forse questo può fare il fotografo, raccogliere tessere di un mosaico che non sarà mai completo, metterle nell'ordine che gli sembra giusto, o forse solo possibile, sognando quell'immagine intera del mondo che magari da qualche parte c'è, o forse c'era e s'è perduta, come la lingua di Adamo».
Un mosaico in continua evoluzione. Che si compone e si scompone. Con tessere che ritornano. Come quei capelli biondi e “ribelli” che sfuggono alla donna velata di Canosa di Puglia. Un raggio di sole nel dolore della Desolata. Una ciocca di speranza, per tutti noi.
Una foto e 907 parole.