La collocazione editoriale qualifica come «romanzo» il nuovo libro di Davide Brullo, intitolato con una sola lettera, «S» (Marietti 1820, pp. 192, euro 16), ma è meno un romanzo che un poema in prosa, sorretto da una scrittura visionaria che ricorda meno la «scrittura automatica» dei surrealisti, che non gli esperimenti del «Grand jeu» che Roger Gilbert-Lecomte e René Daumal intessero alla fine degli Anni Venti, in polemica con i surrealisti. Per Gilbert-Lecomte l'ispirazione era contigua alla paramnesia che, per la psicanalisi, è l'affiorare alla mente di ricordi falsati, onirici. Per Daumal, centrale era «l'evidenza», intesa come luce interiore che istituisce un'analogia tra la realtà poetica e la realtà assoluta. Ne scaturivano, comunque, testi affini alla glossolalia, quel parlare e scrivere in lingue che restano sconosciute all'interlocutore. La glossolalia di Brullo, già nota dal suo «romanzo» dello scorso anno, «Il Lupo», è quanto mai suggestiva, ma resta sigillata. Chi è «S» a cui Brullo indirizza lettere in corsivo? È una donna, una presenza femminile, ma non è la moglie. Forse un'esperienza del passato. A pagina 94 ha un marito e dei figli; a pagina 79, in prima persona, è scritto: «Mia moglie mi è al fianco e mi prega " che paradosso mortifero " di trattarti bene». Dunque non sapremo chi sia esattamente «S» e, in fondo, importa poco, ammesso che lo sappia lo scrittore. È una presenza che attraversa il romanzo-non-romanzo ambientato in un paesaggio post apocalittico, un po' alla Cormac McCarthy de «La strada», con torme di cani aggressivi, gabbiani voraci e mandaci, qualche varano in aura sacrale. Molti bambini, anche sadici, e una specie di sciamano che indossa una pelle di lontra. Intatto è il senso della paternità, tenerissimo a pagina 9 mentre lo scrittore osserva il suo figlioletto, Samuele, che disegna una tartaruga (la tartaruga riprodotta in copertina) e che ritroviamo nel racconto a pagina 132, dove, in terza persona (ma l'autobiografia è scoperta) c'è un bambino di sette anni che, in gita in montagna col padre, avvista la paura di un camoscio e poi, nella nebbia della discesa, perde il contatto: «Ma il bambino urlò papà e il padre si girò verso il figlio con la stessa paura del camoscio, poi spalancò gli occhi, e il figlio si gettò sul padre, e l'uomo e il bambino caddero ridendo, scivolando per il sentiero ampio e generoso, rotolando, abbracciati, sempre». Peraltro, «un figlio non consolida o salda alcun legame, testimonia che qualcosa, un tempo, è accaduto, si è unito, nulla più» (p. 57). Certi illeggibili romanzi della neo-avanguardia («Il giuoco dell'oca», di Edoardo Sanguineti; «Il Re del magazzino», di Antonio Porta) volevano dimostrare (o, semplicemente, mostrare) l'esaurimento del linguaggio, l'impossibilità di comunicare (e quanto tempo è passato). All'opposto, la glossolalia di Brullo mostra (dimostra) l'eccesso di sovrasensi della lingua che diventa scrittura, l'esondazione del linguaggio che travolge i significati: «Sono ancora ottimista, perpetuo la pratica della scrittura. A meno che essa piuttosto che creare distrugga, prima di istituire una relazione la scongiuri. Una scrittura che afferma, precisa e superiore come un ordine, non reclama un lettore ma un fedele. Il lettore giudica, per questo è un cattivo canonico. Ma una scrittura rispettabile non contempla alcun giudizio, semmai è lei stessa, arbitrariamente a imporlo» (p. 65). Barbara Alberti, nella quarta di copertina, conclude: «C'è tanta bellezza in S che l'orrore diventa spazio e respiro. Tutto decrepito e infantile, avanguardia estrema e impeccabile classicità. Dolore. Davide Brullo non è un grande scrittore. Nell'assoluto non c'è quantità».