Le campane del calcio non suonano a festa. L'effetto è quello - non trascinante - di certi scampanii riprodotti e diffusi dagli altoparlanti là dove non esiste un campanile: ci si accontenta. Amen. L'anno che va finge entusiasmo campanaro per gli exploit della Serie B che gioca a Santo Stefano, cercando di imitare il Boxing Day all'inglese, sottolineando con amarezza un'unica differenza: lì gli stadi sono pieni e nelle casse delle società entrano fiumi di sterline; qui di partite son pieni solo i televisori, ormai è calcio virtuale. Al tirar delle somme, il dibattito finale è sempre il solito, verte sul gioco e i giocatori e gli allenatori; impazzano i protagonisti della Tribù del Calcio - così bene illustrata da Desmond Morris - in queste ore alle prese con il mercato degli errori che per fortuna non farà troppi danni. Come dico da tempo, una botta di miseria ha fatto di necessità virtù. Ma non c'è ancora chi affronti - se non a chiacchiere - il problema vero, lo stadio, che nel discorso di Morris rappresentava il Tempio, il luogo in cui si celebra il rito della partita di pallone. Nelle ultime ore si inseguono pensieri in libertà e progetti a breve scadenza, progetti-yogurt. Alla presentazione del torneo giovanile Costa Gaia, ad Alcamo, ho ascoltato - ammirato - un breve intervento di Gianni Rivera che, rivolto ai ragazzini, ai maestri, ai genitori, ha raccomandato il recupero di elementari valori morali: l'educazione, la tolleranza e la lealtà. Da una radio ho poi appreso che Arrigo Sacchi, responsabile federale del Club Italia (e testimonial di una casa di scommesse), è interessato soprattutto al valore del Giuoco e minimizza i successi ottenuti in cent'anni dal calcio azzurro perchè partoriti da una ottusa mentalità difensiva. Peccato che proprio in questi giorni stiano circolando - ad uso delle nuove generazioni che non lo conobbero - numerosi libri contenenti gli articoli di Gianni Brera, il Grande Difensivista che, da vero insegnante di cultura sportiva, non sopportava i maghi e gli ayatollah, si chiamassero Herrera o Sacchi, e finiva per premiare la Giocosità del nostro amatissimo sport affidandosi a Eupalla, «la Dea benevola che assiste pazientemente alle goffe scarponerie dei bipedi». Il Maestro - con il quale ho condiviso viaggi, avventure, partite, parole e pensieri per oltre trent'anni - quando entrava negli stadi era davvero il grande sacerdote, non certo per la pipa, il sigaro e le veementi reprimende che indirizzava ai reprobi pedatori e scribi, ma per l'aura che l'avvolgeva: lo stadio era la sua casa. E la notte dell'Heysel - gli ero vicino - pianse. L'anno trascorso ha lasciato insoluto il problema-stadi. Ho ritagliato il significativo intervento del ministro dello sport, Piero Gnudi, nella primavera del 2012 e lo passo intatto al suo successore che verrà nella primavera del 2013: «Per quanto riguarda la legge sugli stadi sono ottimista. In pochi mesi conto di finire il percorso legislativo. Sul testo della legge c'è l'accordo, mancano solo alcuni passaggi parlamentari. Il Governo è consapevole del valore educativo dello sport soprattutto per i giovani. Non investire nello sport vuol dire non far crescere il capitale umano del Paese...». Passo la palla a Abete e Beretta (o chi per loro) che anticiperanno la campagna elettorale dei Grandi Promettitori. Vogliamo stadi nuovi. Il Giuoco può attendere.