Diceva l'ultimo grande critico cinematografico europeo, Serge Daney, che la recensione di un film (vale anche per un romanzo, una mostra, un disco...) è una lettera che il critico destina al pubblico perché la legga l'autore. Un triangolo necessario. L'autore e la sua opera vengono prima, ma le altre due figure sono ugualmente indispensabili, e la funzione del critico è quella di stare in mezzo, e di collocare, chiarire, mediare. Ma quando il critico parla di autori defunti, di opere del passato? Entrano allora in ballo gli accademici, gli specialisti. Che sembrano essere diventati nel tempo, più che mediatori, imbalsamatori. Sono loro a parlare sempre o quasi sempre degli scrittori e delle opere del passato, con i pregi e i limiti che sono appunto dello specialismo. Ci sono accademici che sono andati oltre, e tra loro, ieri, soprattutto Giacomo Debenedetti, che peraltro l'accademia non amava. La raccolta delle “note di letteratura” di Piergiorgio Bellocchio, scrittore e recensore lontano da giornali e università e (purtroppo o per fortuna) poco compiacente nei confronti dell'attualità, fa pensare a Debenedetti, e si muove su tutt'altra lunghezza d'onda della critica che è definita ancora proditoriamente come “militante”. In Un seme di umanità (Quodlibet) Bellocchio ha raccolto saggi prefazioni recensioni di illuminante chiarezza e profondità, che spaziano dai classici dell'800 (Stendhal e Dickens, i russi e Flaubert...), e affrontano di petto il '900 attraverso i suoi scrittori meno canonici, tra i più legati ai dilemmi di un secolo di tante tragedie e anche di molte ideologiche ipocrisie. Da Céline a T. E. Lawrence, da Hasek a Isherwood, da Orwell a Nizan a Boell e da Fenoglio a Bianciardi fino a un regista all'altezza dei grandi letterati, con un'illuminante analisi del Barry Lyndon di Stanley Kubrick, che anche riflette sui modi di affrontare la storia. Lontanissimo dai luoghi comuni degli ultimi decenni, Bellocchio ha diretto riviste come Quaderni piacentini e Diario, e non si è certo tirato indietro nel giudicare il nostro paese e non solo la sua cultura. C'è un saggio, in questo volume, che ne dà più ragione di altri, quello sull'Epistolario di Pasolini (paradossalmente, è dai “Piacentini” che sono forse venute le riflessioni più utili su quel testimone e protagonista della nostra storia dal dopoguerra al boom e oltre). Si respira un'aria di esigente saggezza, nelle pagine di Bellocchio, e ci aiutano a capir meglio i suoi modelli le pagine che dedica a due figure che molti di noi hanno potuto, conoscere da vicino, Geno Pampaloni e Danilo Montaldi, esemplari anche nella scelta di marginalità.