Salire sul podio e sentire che al posto dell'inno nazionale ti suonano la Nona di Beethoven. E non è un errore. Possibile? Succede. Anzi è inevitabile se il tuo Paese si chiama Zimbabwe, è appena diventato indipendente, e un inno ancora non ce l'ha. Ma succede anche che quella medaglia d'oro senza inno la vinca nell'hockey su prato femminile una squadra composta solo da donne bianche, rappresentanti di uno stato in cui il 90% delle donne è di colore. Succede, perché le Olimpiadi denudano, cercano di unire ma poi si vestono anche di ipocrisia, impongono rituali ferrei ma accettano tutto pur di non mancare. Anche un'edizione monca, come quella di Mosca 1980, dopo l'invasione dell'Afghanistan da parte dell'Urss. Mezzo mondo si ribella e a questi Giochi non partecipa in segno di protesta e di solidarietà con gli Stati Uniti: lo sport si divide in due, qualcuno pure in quattro, come l'Italia che ufficialmente non va a Mosca ma consente al Coni – indipendente secondo statuto del Cio – di partecipare, senza bandiera ed escludendo solo gli atleti che fanno parte delle Forze Armate. Succede ai Giochi, dove i buoni magari non vincono sempre, ma i cattivi non perdono quasi mai. Come a Mosca 1980 sulla schiena piegata di Pietro Mennea, il ribelle che si fa chiamare "negro bianco", emblema del Sud che nel grande sport non c'era mai arrivato. Corre Pietro, reagisce solo quando si accorge che l'oro dei 200 metri glielo stanno portando via. E con una smorfia e uno scatto di rabbia pura va a riprenderselo. Alle Olimpiadi succede.