«Che cosa ho diritto di sperare?» è una domanda ardua, che facilmente ci mette in imbarazzo, una domanda da deglutire a secco. E tuttavia è disseminata dappertutto, e non ammette scappatoie. L’interrogativo sullo sperare ci ricorda che siamo esseri di frontiera, ci proiettiamo in avanti, ci trascendiamo, non ci sentiamo del tutto localizzati qui, annusiamo un futuro. Come Giacobbe lottiamo con un non si sa che e da questa lotta usciamo azzoppati. Ed è questo, in fondo, che noi tutti siamo: barcollanti, incompiuti, abbozzi di una perfezione a venire. Adesso che il conto alla rovescia per il Natale è cominciato, e torniamo a cercare nelle scatole nel ripostiglio i simboli natalizi che adorneranno le nostre case, è importante domandarci che cosa abbiamo diritto di sperare. Un simbolo non dovrebbe essere un illusorio espediente muto, dovrebbe piuttosto farci avvicinare, con la sua forza nuda, a qualcosa di essenziale. E in tal modo aiutarci a riflettere sulla portata, la forza e la natura della nostra speranza; sulle forme del suo oggettivo configurarsi; sulla nostra disponibilità o meno a diventare suoi servitori. È questo che dice il tempo di Avvento che stiamo vivendo. Beati quelle e quelli che si fanno domande, attraversando con il cuore sveglio lo spazio dei giorni: costoro sapranno che il Natale illumina la loro sete.
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