Tra i molti rischi collegati alla prospettiva dell’autonomia differenziata ce n’è uno che si presenta come un ossimoro. È quello che nel discorso pubblico viene definito, con tono evidentemente polemico, “centralismo regionale”. Con questa locuzione si intende stigmatizzare una distorsione del progetto autonomistico rispetto al quadro disegnato dalla Costituzione nel testo modificato dalla riforma del 2001, quella stessa a cui fanno riferimento i fautori dell’autonomia differenziata. L’art. 114 così recita: «La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato. I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principî fissati dalla Costituzione». Formulazione coraggiosa perché relativizza persino il ruolo dello Stato, ma in linea con il fatidico art. 5 della Carta, laddove si afferma il principio che la stessa Repubblica – definita in modo perentorio «una e indivisibile» a scanso di equivoci – «riconosce e promuove le autonomie locali». Le riconosce, non le crea, perché le preesistono.
In questa visione ardita e policentrica, non c’è traccia di quella tendenziale ipertrofia delle Regioni che almeno dagli anni Novanta si è affacciata come problema nel dibattito pubblico e che oggi il processo dell’autonomia differenziata rischia di far esplodere. La Costituzione parla di “autonomie locali”, al plurale, e come abbiamo già visto si riferisce a «enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni». Nel testo della Carta, peraltro, sono i Comuni i primi a essere citati tra gli elementi costitutivi della Repubblica. E alla luce del principio di sussidiarietà non può che essere così perché è quello dei Comuni il livello istituzionale più vicino ai cittadini. Ovviamente non si tratta di stilare un’improbabile graduatoria su chi è più importante e chi meno, quanto di avere ben chiaro che nell’organico e articolato disegno costituzionale delle autonomie non ci può essere un ente pigliatutto da cui gli altri discendono in via derivata. Non lo è lo Stato e tanto meno lo sono le Regioni, che godono di una rilevante potestà legislativa e regolamentare ma che non esauriscono la dimensione istituzionale dei rispettivi territori. Non bisogna dimenticare, per esempio, che la titolarità della funzione amministrativa è attribuita in via generale ai Comuni. In questa chiave molti sindaci hanno pubblicamente espresso preoccupazioni e critiche nei confronti del disegno di legge Calderoli per l’attuazione dell’autonomia differenziata. E nel documento presentato a marzo nella Conferenza unificata convocata per il parere sul ddl, l’Anci ha chiesto «il pieno rispetto dell’autonomia e delle prerogative costituzionali» di Comuni e Città metropolitane.
Il problema cruciale dell’autonomia differenziata, nella versione di cui si sta discutendo oggi dentro e fuori il Parlamento, riguarda le potenziali conseguenze sulla coesione sociale e l’uguaglianza sostanziale tra le diverse aree del Paese. Ma in termini di sistema non va sottovalutato anche il rischio che a un centralismo statale si sostituisca un centralismo regionale, molto più di quanto non sia già avvenuto in modo strisciante con le regole attuali. L’alternativa non è nella tentazione neo-statalista ma nella tutela e nella promozione di una genuina Repubblica delle autonomie.
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