L’uomo contemporaneo ha mutato il modo di comprendere sé stesso e il rapporto con il proprio corpo. Si assiste oggi a una tendenza all’autonomia gestionale della persona nei confronti della propria salute. Emerge un fenomeno che era sconosciuto quando dominava il paternalismo medico: l’autoprescrizione (self-medication). Con questo termine si indicano almeno quattro distinti comportamenti: la modifica della terapia prescritta dal medico, l’inadempienza terapeutica, la decisione autonoma di assumere un dato farmaco, l’abuso nel ricorso a un farmaco (prescritto o meno dal medico). Il rischio del “fai da te” del paziente medico oggi è significativo e può comportare vari pericoli per la salute. L'autodiagnosi può portare a errori significativi, poiché i pazienti potrebbero non essere in grado di valutare accuratamente il loro stato di salute e distinguere tra sintomi lievi e quelli che richiedono l'intervento di un medico o di un farmacista. L'uso di farmaci da banco senza la supervisione di un medico o l’uso di farmaci prescritti in passato e che si pensa possano aiutare in una situazione che si ritiene analoga può causare interazioni pericolose con altri farmaci assunti dal paziente, inclusi quelli per patologie croniche. Inoltre, l'assunzione di diversi farmaci da banco per trattare sintomi diversi può portare a un sovradosaggio accidentale, soprattutto se i farmaci contengono lo stesso principio attivo. Infine, l’uso autonomo di farmaci può mascherare alcuni sintomi e ritardare la diagnosi di malattie gravi. La pandemia ha poi tramutato la cosa quasi in una emergenza: la ricerca di informazioni mediche su internet può esporre i pazienti a informazioni errate o non verificate, aumentando il rischio di autodiagnosi e autotrattamenti sbagliati. Particolarmente interessanti sono i risultati di una indagine targata EngageMinds Hub, il Centro di ricerca dell’Università Cattolica (campus di Cremona) che con uno strumento di rilevazione continuativa e quantitativa su un campione rappresentativo della popolazione italiana analizza i comportamenti in ambito sanitario, alimentare e di sostenibilità. Stando a quanto rilevato dal Monitor continuativo del centro di ricerca, poco più di 6 italiani su 10 sono favorevoli all’uso dell’Intelligenza Artificiale in ambito sanitario. Di questi l’88% la userebbe per semplificare il linguaggio dei referti, l’86% come supporto al medico per effettuare una diagnosi e l’80% come aiuto per stabilire una terapia farmacologica adeguata. Il dato preoccupante è che quasi 6 italiani su 10 la utilizzerebbero come strumento per un’autoanalisi. L’IA in medicina allora sarà uno strumento per aumentare la capacità e l’efficienza del Sistema sanitario nazionale e delle diagnosi mediche o uno strumento fuori controllo nelle mani di cittadini impreparati che, vittime della propria ansia, si farebbero più del male che del bene? L’algoretica ci chiede che a fronte dei vantaggi in termini di accesso rapido alle informazioni e risparmio di risorse – poiché l’IA comporta anche rischi significativi, come diagnosi errate e ritardi nel trattamento adeguato – sia essenziale che non solo i medici ma anche le persone siano formate e informate adeguatamente.
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