Attraverso ogni frontiera, «capitani della nostra anima»
Gli esempi, come detto, sarebbero mille e vanno dalle tragedie a oggettivi contributi di miglioramento del mondo. Non si può non citare colui che, attraverso lo sport, il mondo lo cambiò per davvero: Nelson Mandela che, in occasione dei Mondiali di rugby del 1995 organizzati in Sudafrica, si accorse che solo i bianchi tifavano per gli Springboks, la nazionale verde-oro del Paese, mentre i colored tifavano qualunque squadra giocasse loro contro. Mandela compì un'azione politica, allenando quella squadra nell'anima, sortendo un doppio miracolo: i neri cominciarono a tifare per quello sport da bianchi, e la nazionale sudafricana vinse in maniera inaspettata quei Mondiali, costruendo un'identità laddove la politica non era riuscita a farlo.
I nostri travagliati tempi così densi di nazionalismi, populismi, fobìe per il diverso, hanno maledettamente bisogno di un modello di sport che riporti a concetti alti, in qualche modo esemplari. Prendo spunto da un piccolo fatto di cronaca sportiva, senza dubbio sfuggito ai più. Su questo pianeta ci sono tre sport di squadra che hanno una diffusione che attraversa ogni confine, fisico o intellettuale: il calcio, la pallavolo e la pallacanestro. Insieme, secondo le stime del Comitato olimpico internazionale, sono praticati e seguiti da circa 2,5 miliardi di persone. Un terzo dell'umanità. Ho più volte tentato riflessioni, in questa rubrica, rispetto alla portata gigantesca di un potenziale messaggio e alla forza, altrettanto potenziale, di un'azione congiunta, se solo questi tre sport desiderassero farlo. Torno dunque al piccolo ma significativo fatto di cronaca. Protagonista uno di questi tre sport, quello con la palla a spicchi. Nel mese di agosto si sono disputati i campionati asiatici di basket. Li ha dominati l'Australia, alla sua prima partecipazione (interessante anche questo caso di geopolitica sportiva, con l'unione delle Federazioni di Asia e Oceania) capace di vincere, con più di 20 punti di scarto, tutte le partite dal quarto di finale in poi. La cosa interessante, in questo caso, non è tuttavia il risultato sportivo ma il luogo dove le partite si sono disputate: il Nouhad Nawfal Stadium di Beirut, capitale del Libano. Così, se il 20 agosto l'Australia vinceva la sua medaglia d'oro battendo in finale l'Iran nel Palasport di Beirut, undici giorni dopo la nostra nazionale azzurra esordiva, questa volta ai Campionati europei, nel palazzetto di Tel Aviv, contro i padroni di casa di Israele. Tra l'altro, questa edizione dei Campionati europei di basket, come sempre più spesso succede nei tre sport a diffusione planetaria, è stata "spalmata" su più stati (Israele appunto, Finlandia, Romania e Turchia che ospiterà le fasi finali).
La domanda dunque, uscendo dal campo di basket, è: dove sono i confini dell'Europa? Australia e Iran hanno giocato per la medaglia d'oro dei Campionati asiatici in una città che in linea d'aria dista 200 km da quella dove l'Italia ha battuto Israele per i Campionati europei. Se aveste desiderato andarci in auto, da Beirut a Tel Aviv per vedere queste due partite, sareste passati attraverso Siria, Giordania e Cisgiordania. Questa babele geografica ci insegna ancora una volta che lo sport non sta dentro a nessun confine, non rispetta alcun limite e pregiudizio, e se si tenta di mettercelo a forza lui ne salta sempre fuori, con meravigliosa autonomia e capacità individuale di giudizio. Proprio come in quelle parole del poeta William Ernest Henley, che Nelson Mandela usò per motivare François Pienaar, il capitano (bianco) della sua nazionale di rugby: «Non importa quanto sia stretta la porta, quanto piena di castighi la vita. Io sono il padrone del mio destino. Io sono il capitano della mia anima».