Il 27 maggio 1816 due giovani inglesi si incontrano in un albergo di Ginevra. Sono Byron e Shelley, poeti, il primo già noto, il secondo già famoso. Si conoscono e si leggono, astri nascenti della poesia romantica. Ma non si sono mai incontrati in madrepatria. Ora accade, scoprono che tutti due sono lì di passaggio per l’Italia, scelta come nuova vita. Al bando la detestata Inghilterra.
Sul lago, durante una gita in barca, furono colti da una violenta tempesta che mise subito alla prova il loro coraggio. Shelley restava completamente, seduto a braccia conserte, Byron, in piedi a torso nudo, si agitava pronto ad afferrare l’amico e salvarlo a nuoto. Ma il primo rifiutava ogni soccorso, dichiarandosi pronto a sprofondare. La barca riuscì comunque a tornare malconcia al porto. Bell’inizio.
La loro vita è segnata dall’acqua. Shelley non sapeva nuotare, ma come dimostrò a Ginevra, non temeva l’acqua, anzi ne era affascinato e attratto. Ne amava la superficie che contemplava, immaginando i misteri dei fondali.
Per Byron al contrario il nuoto era energia. Non gli importava niente dei misteri dei fondali. La sua fama era universale, i migliori nuotatori del mondo si mettevano in lista per sfidarlo, quasi sempre sconfitti. Una lapide, a Portovenere, lo ricorda come “grande nuotatore e poeta”.
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