Ogni volta che Ardiane Pupovci Ademi vede una giovane famiglia ucraina scendere da un autobus ed entrare timidamente nel centro di smistamento della Caritas di Houston, non può che rivedere sé stessa. «Ero una di loro. Persa, stanca, preoccupata a morte per i miei figli. Parlavo poco inglese, non sapevo che cosa aspettarmi», racconta, sorridendo ai nuovi arrivati. Ardiane veniva dal Kosovo. Era il 1999 quando un volo militare Usa la depose alla base dell’aeronautica americana di McGuire, in New Jersey, con il marito e due bambini sotto i cinque anni. Aveva 33 anni, una laurea in legge all’Università di Pristina e tanta paura. Aveva scambiato un campo profughi affollato della Macedonia e una patria devastata dalla guerra per una caserma americana trasformata in rifugio temporaneo per i profughi. Il futuro restava vago.
«Io e mio marito eravamo partiti con riluttanza dai Balcani perché non sapevamo quando saremmo tornati — spiega — ma sapevamo che dovevamo farlo per nostro figlio e nostra figlia».
Oggi Ardiane è responsabile dei servizi d’accoglienza per le madri e i padri che, come lei, arrivano negli Stati Uniti carichi di dolore, incertezza e un barlume di speranza. «Venticinque anni fa eravamo noi kosovari — continua —. Oggi sono cubani, nicaraguensi, venezuelani, ucraini e haitiani. Ogni mese fino a 30mila persone provenienti da questi Paesi, che vengono considerati ad alto rischio, hanno diritto di essere ammesse negli Stati Uniti e di avanzare da qui una domanda d’asilo. Rispetto agli altri immigrati che si presentano al confine, è un enorme vantaggio. L’altra fortuna, come lo fu per noi, è che in attesa di una risposta delle autorità migratorie possono lavorare, e cominciare a integrarsi». La rete di agenzie che Ardiane coordina dal suo ufficio alla Caritas si adopera per rendere i profughi indipendenti il più velocemente possibile, perché, assicura, è quello che vogliono. Si comincia con un kit di benvenuto che include sapone, shampoo, spazzolino e un asciugamano. Poi viene offerto loro un letto in una struttura per famiglie e, non appena hanno riposato, un orientamento sulla cultura americana e le tappe della loro transizione verso la loro nuova vita.
Il programma di collocamento profughi del dipartimento di Stato assicura i fondi per coprire l’affitto, i mobili, il cibo e i vestiti dei rifugiati per 90 giorni. Il dipartimento alla Salute fornisce assistenza medica a lungo termine, oltre a corsi di lingua e di formazione professionale. Un anno dopo il reinsediamento, i rifugiati possono richiedere lo status di residente permanente.
«Noi diamo l’aiuto logistico. Troviamo gli appartamenti, organizziamo lezioni d’inglese di base, cerchiamo posti di lavoro, li affianchiamo nell’iscrizione a scuola dei figli, e rimaniamo disponibili come famiglia di riferimento per chi non ha nessuno negli Stati Uniti. Così è stato per me, e non lo dimenticherò mai».
All’epoca il gruppo di cui faceva parte Ardiane venne portato in un centro dove ad accoglierli trovarono la first lady Hillary Clinton. «Poi, poiché al contrario di molti nostri connazionali non avevano né parenti o né amici negli Usa, trascorremmo tre settimane alla base - continua a ricordare Ardiane -. Quindi ci fu assegnata una città, soldi per un mese d’affitto e il sostegno di una famiglia locale». Ardiane e suo marito furono inviati a Houston. «L’inizio naturalmente fu duro, ma sarebbe stato impossibile se non avessimo avuto tante persone attorno alle quali rivolgerci quando non sapevamo come muoverci nel mondo del lavoro o nel sistema scolastico, o eravamo scoraggiati. Molte delle famiglie con cui eravamo arrivati tornarono in patria. Per noi, Houston divenne casa». Nella città texana nel 2004 Ardiane si iscrisse al Centro per gli studi legali avanzati, già con l’intenzione di lavorare per l’organizzazione che le aveva dato di più durante la sua transizione negli Stati Uniti. Subito dopo aver conseguito il diploma, infatti, venne assunta dal programma di servizi per i rifugiati della Caritas diocesana. Nel 2007 ne è diventata la vicepresidente. «Per me il cerchio si è chiuso, e mi ha dato pace, ma per molti altri quel momento è ancora lontano. Con il mio lavoro cerco di rassicurarli come posso che la serenità arriverà anche per loro».
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