Anni Ottanta, quando tutti volevano essere «vincenti» e non «perdenti»
La sinistra marxista era stata diffamata e tramortita dai colpi del terrorismo: si era capito che un leninismo pensato con coerenza e mescolato all'anarchismo, produceva conventicole di assassini mascherati da amici del popolo. La novità degli anni Ottanta fu l'euforia della dimenticanza per i due decenni precedenti. Gruppi, movimenti, partiti grandi e piccoli non piacevano più. Si parlò di Christopher Lasch e Guy Debord, di Lyotard e di Vattimo: cioè di cultura del narcisismo, società dello spettacolo, postmoderno e culto dell'estetica. Nasceva allora il leaderismo carismatico, la politica televisiva, la nostalgia del liberalismo. La nuova piccola borghesia (non più moralistica come in passato, ma amorale) rendeva obsoleta la classe operaia e la sua immagine storica. Nessuno voleva più essere chiamato proletario ed emarginato, anche se per caso lo era. Venne fuori un nuovo tic linguistico: la divisione del genere umano in "vincenti" e "perdenti". Tutti volevano sentirsi vincenti, anche se per caso non lo erano. La cultura alta si tuffava nella cultura di massa: così, per gioco. Il presidente Sandro Pertini, papa Wojtyla e l'autore del Nome della rosa occupavano costantemente la scena. Il nuovo presidente, Francesco Cossiga, inventò l'abitudine alle "esternazioni". In tv si cominciò a urlare e tuttora non si smette. Tutti vollero essere creativi e tuttora lo vogliono. La crisi della politica generò fenomeni politici inusitati che ci ossessionano tuttora.